#30 PARALIMPIADI: disabili o supereroi?
I Giochi di Parigi 2024 fanno la loro parte per portarci a superare il NOSTRO limite, che talvolta ci impedisce di vedere in chi gareggia semplicemente atleti, come quelli che li hanno preceduti.
Ci sono voluti sessant’anni, ma ne valeva la pena. Lo so che sembra mi riferisca al pesto di una nota marca di sottaceti, ma vale anche per le Paralimpiadi, se pensi che l’esordio di questa manifestazione è stato a Roma 1960. Come me, forse anche tu non eri ancora nata. Ho ricontrollato più volte la data: possibile che davvero questa manifestazione esista da così tanto tempo? E allora perché per la gran parte della mia esistenza, almeno fino a una dozzina di anni fa, non ne avevo mai sentito parlare? L’evento che si chiuderà domani a Parigi mi è sembrata quindi una buona occasione per riflettere su come sono presentate le persone con disabilità nel discorso pubblico, quanto per decenni le loro immagini sono state rimosse dai nostri occhi e di come - anche in funzione di tutto questo - le guarda chi in apparenza, e per il momento, si considera “normodotato”.
Qualche cenno di storia
A mia discolpa, ho scoperto che anche se i primi Giochi Paralimpici sono più vecchi di me, un Comitato Paralimpico Internazionale (IPC) paragonabile a quello olimpico vide la luce solo alla fine degli anni ‘80, trent’anni dopo quel primo esordio: fu un passo fondamentale, perché dimostrò la volontà di fare sul serio, di allinearsi alle attività del CIO e di mettere in atto una vera e propria strategia per il futuro. Soltanto nel 2001, però, i due comitati firmarono anche un accordo che impegnava qualunque città si candidasse a ospitare la manifestazione ad accoglierle entrambe, sebbene non contemporaneamente. La scelta dipende un po’ da ragioni logistiche, per il numero di persone, gare e impianti coinvolti, che sarebbe insostenibile ovunque, ma un po’ anche per non rischiare che le Paralimpiadi ne risultino offuscate: gli spazi televisivi sono quel che sono, così come l’attenzione degli osservatori.
Ed è proprio alla televisione che si attribuisce la svolta nella narrazione delle Paralimpiadi, a partire da Londra 2012. La rete pubblica britannica Channel 4 -fondata per innovare la TV nella forma e nei contenuti, così da rispondere alle esigenze di una società sempre più diversificata - capovolse la percezione che i giochi paralimpici fossero una manifestazione di serie B, con un famoso spot che salutava la chiusura di quelli olimpici con le parole: “Grazie per il riscaldamento!”.
Come scrive The Conversation, sito che a questo tema sta dedicando in questi giorni moltissimo spazio con decine di articoli, in un’indagine condotta poco dopo, il 65% dei cittadini britannici intervistati dichiarava che le Paralimpiadi avevano cambiato la loro prospettiva nei confronti delle persone con disabilità. Ancora più potente fu quattro anni dopo la campagna “Siamo i superumani!” (“We’re the superhumans!”), per Rio 2016, ritmata da una serie di “Yes, I Can” (“Sì, io posso!”) che dalle strabilianti imprese sportive e musicali passa nella quotidianità. Il video su YouTube dura 5 minuti ed è travolgente, non perdertelo.
Quali limiti sono da superare?
La tentazione è di guardare a questi atleti per la loro capacità di superare i limiti imposti loro dalla natura o dal destino, ma di farlo quasi fossero fenomeni da baraccone, con un misto di curiosità, compassione e anche ammirazione per il loro coraggio, che tuttavia ne segna sempre la distanza dalla cosiddetta “normalità”. Anzi, qualcuno non guarda le gare paralimpiche proprio per questo, per non cadere in questo sentimento che avverte come sbagliato.
Ma quali sono i limiti che definiscono la disabilità? Dove mettiamo il confine tra chi è “normodotato” e chi no? Chi stabilisce la soglia della normalità? Io, per esempio, da quando ero piccola sono quasi sorda da un orecchio, un deficit che tuttavia passa inosservato (almeno fino a quando qualcuno pensa di sussurrarmi un segreto, o paroline dolci, proprio a sinistra, e io volto la testa per cercare di capire). Avendo avuto sei figli da scarrozzare in giro per la città con carrozzine e passeggini ho avuto modo di sperimentare sulla mia pelle cosa sono le barriere architettoniche e che impatto può avere un’auto parcheggiata sul marciapiede. E basta una distorsione o una frattura a rendersi conto di che corsa a ostacoli sia muoversi nel nostro mondo. Credo di avere un’intelligenza nella media, che mi ha permesso di laurearmi e affermarmi in una professione di tipo intellettuale, ma ho serie difficoltà con i numeri e posso perdermi anche nel paesino da 4.000 abitanti dove ho trascorso quasi vent’anni della mia vita. Se la mia riuscita fosse dipesa dalla capacità di calcolo o dal senso dell’orientamento, non sarei in grado di guadagnarmi da vivere. Non parliamo poi se avessi dovuto superare la mia goffaggine. Lo “status” di disabile, poi, non è altro da “noi” anche perché chiunque da un momento all’altro per un incidente, una malattia o la semplice vecchiaia può perdere una delle abilità quotidiane che diamo per scontate.
Ce lo ricorda, tra gli altri, Manuel Bortuzzo, che cinque anni fa, quando era una giovane promessa del nuoto italiano, fu colpito fuori da un locale da un colpo di pistola non diretto a lui, ma che dalla sera alla mattina gli tolse l’uso delle gambe. Se a Parigi ha vinto la medaglia di bronzo nei 100m rana è sicuramente merito suo, della sua costanza e forza di volontà, ma quanti si sono mossi intorno a lui per aiutarlo a metabolizzare il trauma e a convogliare le sue energie verso nuovi obiettivi? Mi chiedo se a tutti sia data la possibilità di scoprire le proprie abilità nascoste, di fronte a disabilità evidenti, ma tanto più di fronte a quelle invisibili. Da un alto c’è il costo delle carrozzine sportive, delle handbike o degli altri dispositivi necessari, ma prima ancora c’è da lavorare sulla cultura della disabilità, su cosa questa significhi e sul ruolo che una o un disabile può e deve avere nel mondo.
Partiamo dalle basi
Come ormai è stato definito da oltre vent’anni dall’Organizzazione mondiale della sanità con la Classificazione internazionale del funzionamento, della disabilità e della salute (International Classification of Functioning, Disability and Health, ICF), il benessere di ognuno non dipende infatti solo dalle sue caratteristiche individuali - fisiche, psichiche e mentali –, ma anche dalla relazione di queste caratteristiche con il contesto in cui è inserito: la nostra società, per esempio, richiede una capacità di concentrazione e di apprendimento molto maggiore di quella che serviva per vivere nella realtà prevalentemente contadina di un secolo fa (o di altre parti del mondo), mentre dà minore importanza alle doti manuali che venivano sviluppate fin da piccoli nelle botteghe artigiane; viceversa, chi ha un deficit visivo o uditivo oggi riceve una diagnosi precoce e supporti che lo aiutano molto più di un tempo, mentre un tempo i sordi alla nascita erano per definizione anche muti, e spesso con un ritardo mentale dovuto alla mancanza di stimoli.
Nel progettare le città, gli oggetti della vita quotidiana, i programmi scolastici è quindi fondamentale pensare a un mondo in cui nessuno sia escluso: la “disabilità” di una persona in carrozzina si riduce molto se può uscire sola da casa, viaggiare in metropolitana, entrare nei locali pubblici o partecipare ai concerti (come è stato richiesto qualche mese fa col manifesto Live for all su iniziativa di Lisa Noja, avvocata milanese e consigliera di Regione Lombardia), ma le strutture pensate per i paraplegici sono preziose anche per il ragazzo che ha rotto una gamba sciando o per l’anziano che si sente insicuro sulle scale.
Come abbiamo imparato nei confronti dell’autismo, dove si va da condizioni di non autosufficienza ad altre che permettono di eccellere nella nostra società, credo che dovremmo abituarci a pensare sempre in termini di “spettro”, di una grande variabilità personale in ogni specifica abilità fisica, psichica o mentale, la cui somma contribuisce alla singolarità di ogni individuo.
Mi chiedo se a tutti sia data la possibilità di scoprire le proprie abilità nascoste, di fronte a disabilità evidenti, ma tanto più di fronte a quelle invisibili.
Normalizzare la diversità
Tuttavia è innegabile che il grande pubblico, soprattutto tra un’edizione e l’altra, non segua gli sport paralimpici quanto quelli olimpici, un po’ per scarsa conoscenza, un po’ per un istintivo senso di disagio davanti a corpi “non conformi”. Qualcuno, in questi giorni, lo ha detto, seppure a mezza voce: ci fanno “impressione” il nuotatore brasiliano focomelico Gabriel Dos Santos Araujo, per tutti Gabrielzinho, col suo irresistibile sorriso, o Sheetal Devi, l’atleta indiana che ha superato il record del mondo nel tiro con l’arco, tenendolo col piede e tirando con la bocca. Eppure, non ci fa più lo stesso effetto Bebe Vio, cui la meningite non ha provocato solo amputazioni degli arti, ma anche vistose cicatrici su tutto il corpo, viso compreso. Ci siamo abituati anche a vederla cambiare braccia e gambe per le diverse occasioni, sportive o mondane, come noi scegliamo le scarpe o il cappotto. La sua esposizione mediatica ha reso “normale” il suo aspetto, che non turba più nessuno come invece faceva alle sue prime uscite pubbliche. È così “normale” che può fare da testimonial a grandi marchi che con la sua disabilità non hanno più niente a che vedere.
Gabrielzinho con le tre medaglie d’oro vinte a Parigi 2024 con la sua tecnica di nuoto copiata ai delfini
È capitato anche a me, varie volte, con persone che sono diventate amiche. Il disagio e l’imbarazzo del primo momento sono spariti non appena ho cominciato a parlare con loro e ne ho scoperto l’intelligenza, lo spirito, gli interessi, la “normalità”. Di un’altra, invece, nemmeno si vedeva la disabilità, mascherata da una protesi estetica perfetta, ma inutilizzabile. In un percorso di crescita personale che l’ha portata a riconoscersi anche con la sua disabilità, senza più volerla nascondere, l’ho vista cimentarsi con le più innovative soluzioni tecnologiche messe a punto dall’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova, con cui ha recuperato l’uso della mano in gesti che per tutta la vita si era negata. Ne è anche diventata in qualche modo testimonial sui social media, per aiutare altri come lei. Questi strumenti tanto vituperati fanno tanto per la “normalizzazione”: penso a influencer come Giulia Lamarca, che gira il mondo in carrozzina con il marito, una figlia piccola e un altro in arrivo o alla irresistibile simpatia della scrittrice Marina Cuollo, autrice tra l’altro del libro “A Disabilandia si tromba”, in cui si rompe anche il tabù legato alla sessualità.
Il ruolo della TV (e quello dell’ironia)
Ma è guardando la telecronaca di queste paralimpiadi che mi sono resa conto di quanto il mondo stia cambiando. Ve ne siete accorte e accorti? Le disabilità sono messe in secondo piano rispetto ai risultati, non c’è spazio per storie di incidenti che hanno cambiato la vita, di malattie o anomalie congenite superate con la forza di volontà, né tanto meno per racconti pietistici. Sotto i riflettori ci sono atleti, che devono lottare contro la forza di gravità, l’inerzia, il tempo o l’abilità degli avversari, esattamente come quelli che li hanno preceduti nei giochi olimpici terminati la settimana prima. Gli unici riferimenti alle disabilità hanno un tono ironico, e stanno fuori dalle gare: nei post e nei meme sui social media o nelle dichiarazioni degli atleti stessi dopo le gare. Memorabile il lanciatore del disco Rigivan Ganeshamoorthy, nome e cognome cingalese ma parlata romanesca mentre risponde all’intervistatore su come sta vivendo questa esperienza parigina: “Bene, bene, a parte che ci sono troppi disabili”; Bebe Vio che mostra in diretta su Instagram l’unboxing del pacco ricevuto con il materiale olimpico ridendo dei calzini, che regalerà a qualcun altro; Assunta Legnante, medaglia d’oro nel lancio del peso, è cieca, e si propone di raggiungere le prossime Paralimpiadi anche per vedere l’America: “Cioè, non la vedrò nemmeno stavolta, ma almeno ci sarò stata” precisa con un sorriso.
Assunta Legnante, La Presse
L’ironia è consentita e sempre benvenuta quando è rivolta a se stessi, e non agli altri, soprattutto se serve a superare l’etichetta di “infelici” con cui mia nonna chiamava tutti i portatori di una disabilità, fisica o psichica che fosse, con quello che probabilmente credeva fosse un affettuoso eufemismo. Ma va bene come strumento di rottura. L’obiettivo, diciamocelo, è un altro. Quello di non vedere più la disabilità come tratto costitutivo di una persona, come elemento che la definisce. Smettere di cercare le storie di successo personale, sportivo o professionale, di persone con disabilità come esempi per noi, come lezioni, come monito per la nostra pigrizia o per il pessimismo che abbiamo verso noi stessi e verso quel che la vita ci ha dato. Arrivare a un punto in cui non sarà necessaria la simpatia per andare sui giornali, e basterà il risultato. Quando un campione paralimpico potrà permettersi di essere antipatico, anzi proprio arrogante e stronzo, come certi vip dello sport “normodotati” dal punto di vista fisico (un po’ meno da quello umano), potremo dire di avercela fatta. Le paralimpiadi e tutto il movimento culturale che le anima avranno raggiunto il loro risultato.
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Mi piace cominciare questa rubrica di aggiornamenti con una bella notizia: nella Repubblica Democratica del Congo sono arrivate l’altro giorno quasi 100.000 dosi di vaccino contro mpox donate dalla Commissione europea e oggi è prevista la consegna di un altro carico equivalente.
Positivi sono anche i risultati di una sperimentazione con un vaccino a mRNA di Moderna, che sugli animali si è dimostrato più efficace di quello più tradizionale attualmente disponibile.
Su Univadis ho raccontato la storia incredibile, di cui si parla da un po’, che riguarda GISAID, la piattaforma che raccoglie le sequenze dei virus influenzali: a gestirla è infatti un privato di cui si sa molto poco, con precedenti per truffe, che blocca in maniera arbitraria l’accesso all’uno o all’altro ricercatore. Un gruppo di giovani scienziati ha creato una piattaforma alternativa, Pathoplexus, per il momento dedicato solo a ebola e altri virus.
A proposito di nuovi virus emergenti, negli ultimi giorni sono usciti nuovi allarmi. Il primo è stato lanciato su Nature da un gruppo di esperti che hanno esaminato i tessuti di 461 animali da pelliccia trovati morti per malattia, trovando al loro interno 125 specie virali, di cui 36 mai scoperte prima e 39 ad alto rischio di spillover, cioè di passaggio tra le specie. Dopo i contagi di covid-19 e di aviaria H5N1 tra i visoni, torna a galla il pericolo rappresentato da questi allevamenti.
Intanto, su Nature, un professore di scienze ecologiche dell’Università di Aarhus, in Danimarca, Christian Sonne, racconta di come le zone dell’Artico soggette al riscaldamento globale rappresentino, tra le altre cose, anche una minaccia per nuove pandemie. La preoccupazione non riguarda tanto la possibilità che dai ghiacci emergano nuovi agenti infettivi, ma l’effetto crociato di distruzione dell’ambiente naturale, perdita di biodiversità, diffusione di sostanze chimiche che richiedono un approccio interdisciplinare One Health.
In 17 persone che hanno sviluppato una malattia febbrile tra la Cina e la Mongolia è stato individuato un nuovo virus trasmesso dalle punture di zecche. La scoperta è stata pubblicata sul New England Journal of Medicine.
L’India, intanto, sta vivendo la peggiore epidemia da virus Chandipura degli ultimi vent’anni. Si tratta di un agente infettivo della famiglia di quello della rabbia, che può provocare gravi encefaliti. Lo riferisce anche Lancet.
Sono uscite anche tante false notizie negli ultimi giorni, dalla “decifrazione del codice genetico dell’autismo” al tumore al seno di Elle McPherson guarito con la medicina olistica: che dire? Trovate risposte alla prima bufala su “Ci vuole una scienza”, il podcast del Post e alla seconda, tra gli altri, l’oncologa Rossana Berardi su Repubblica. Ma che fatica, quando le presunte “fonti autorevoli” diffondono disinformazione.
Per ora vi lascio a un dolcissimo weekend! Io purtroppo non sono riuscita ad andare al convegno dei divulgatori a Strambino, ma se potete raggiungeteli: ci sarà da divertirsi moltissimo!
Sempre sul pezzo! Brava Roberta Villa
Bellissimo articolo !! Complimenti