#70 Ultime chiacchiere prima di partire
Qualche aggiornamento, saluti e baci prima di lasciarci per un po'
Non so tu, ma io con questo caldo non riesco più a ragionare, scrivere e lavorare. Mi capita tutti gli anni di arrivare a questo periodo strisciando sui gomiti, come si dice. E siccome uno dei vantaggi dell’essere freelance sta nel decidere quando andare in vacanza, ho sempre preferito staccare a luglio, quando le giornate sono più lunghe e l’affollamento nei luoghi di vacanza un po’ meno soffocante.
Non parto subito. Starò prima un po’ a Siena (se mi vedi in giro, salutami!), ma vorrei lasciare il computer a Milano, con un gesto di pseudoribellione e autonomia. (Tanto ormai si fa tutto dal telefono e abbiamo tutto sul cloud, per cui, se occorre, troverò lo stesso il modo di fare qualcosa). Ho però davvero bisogno di staccare il cervello, pensare ad altro, respirare, camminare, fare yoga e leggere, leggere, leggere.
L’appuntamento settimanale riprenderà il 2 agosto, quando spero di tornare fresca per farti compagnia sia che tu stia ancora lavorando, sia anche tu abbia anticipato le ferie, sia che tu debba o voglia farle ad agosto o non possa proprio prenderti un po’ di riposo (sigh).
Foto di 5 anni fa, e si vede, anche dalla minor cura a proteggermi dal sole, ma sa tanto d’estate e mi piace tanto, perciò…
Ancora sul fine vita
Pare che il parlamento aspettasse la mia newsletter per avanzare una proposta di testo che tuttavia, a detta di esponenti della stessa maggioranza, avrà ancora bisogno di molta discussione e correzione. Il tempo non è moltissimo, perché sembra che finalmente ci sia la volontà politica di arrivare alla legge invocata da molte sentenze, oltre che da varie voci della società civile: una prima discussione ristretta avverrà al Senato martedì 1 luglio, l’approvazione è prevista entro il 17.
Le opposizioni però si preparano a dare battaglia ed è già iniziata anche una raccolta firme contro molti punti che hanno provocato reazioni indignate. Prima di tutto ci sono le tempistiche: sei mesi prima di dare una risposta all’ammalato che chieda la verifica dei suoi requisiti per il suicidio assistito, ma soprattutto quattro lunghissimi anni prima di poter richiedere l’autorizzazione dopo che questa è stata negata una prima volta. Ma lasciano perplesse anche le modalità previste per l’iter di autorizzazione. La valutazione non sarebbe più lasciata a regioni e ASL, ma sarebbe centralizzata e affidata a un unico comitato etico nominato dal Governo. La scelta vorrebbe giustamente evitare discrepanze nei metodi di giudizio e negli approcci tra una regione e l’altra, ma rischia di creare un collo di bottiglia decisionale che potrebbe rendere impraticabile l’accesso al “diritto a morire”. E anche su questo si gioca il dibattito. La proposta di legge infatti non prevede questo diritto, ma si concentra solo sul sollevare chi aiuta il paziente dalla punibilità per il reato di istigazione o aiuto al suicidio. Restano quindi esclusi i casi di pazienti la cui autonomia è così compromessa da non poter più fare nulla, nemmeno tramite l’intervento di una macchina, per assumere da soli il farmaco previsto, oltre a quelli che chiedono di morire prima di arrivare ad avere bisogno di un supporto vitale. perplessità lascia anche l’idea di rendere in qualche modo “obbligatorie” le cure palliative prima di ricorrere al fine vita, perché sia davvero “l’ultima spiaggia”. La Società Italiana di Cure Palliative però non ci sta, né sull’associazione tra cure palliative e suicidio medicalmente assistito, né tanto meno sull’idea che il ricorso a questi trattamenti possa essere in qualche modo obbligata. Il trattamento di supporto deve essere un’opportunità scelta liberamente. Prima di pensare a costringere qualcuno, bisognerebbe piuttosto garantire un diritto di cui a oggi può usufruire solo a un paziente su 4, con 9 regioni soltanto che rispondono ai requisiti richiesti.
Giovedì sera, alla Festa dell’Unità di Tortona dove mi hanno invitato per una chiacchierata su informazione, disinformazione, ecc, Michele Bellone mi ha chiesto se non c’è proprio modo di sfuggire alla polarizzazione sui temi sensibili (e anche sulle banalità). Gli ho risposto citando l’intervista di Simone Spetia a Chiara Lalli, bioeticista e membro dell’Associazione Luca Coscioni, e Maurizio Lupi, presidente di Noi Moderati, che avevo sentito quella stessa mattina su Radio 24. Se ti va di ascoltare il podcast a questo link o sul sito della Radio vedrai che mi darai ragione. O no?
Che cos’è il giornalismo scientifico?
Sempre giovedì sera ho citato un altro podcast, questa volta in inglese, che però mi è sembrato davvero interessante, sia per il suo contenuto, sia per il mondo che rivela. Mi riferisco alla puntata di Daily in cui Natalie Kitroeff, giornalista del New York Times, dialoga con Emily Anthes, reporter scientifica della stessa grande testata statunitense. La prima cosa che mi ha colpito è come Emily parla del team che al New York Times si occupa di scienza, e di come ha collaborato per mesi con altre parti della redazione, in particolare con la sezione dedicata all’analisi dei dati, per portare a termine un lavoro di indagine che nessuno avrebbe potuto fare da solo. Ecco. Lasciate perdere la scienza, pensate a qualunque altro argomento di inchiesta, e capite perché da noi è così difficile arrivare a risultati che non siano semplici esercizi di scandalismo a tesi predeterminate, a conferma di un’ipotesi iniziale. Chi è che oggi in Italia, come negli USA fa ancora il New York Times, può pagare in maniera adeguata un gruppo di professionisti per lavorare senza preconcetti su un unico argomento per mesi, per capire i meccanismi di fenomeni complessi, raccogliere prove, cercare testimonianze e poi confezionare e raccontare il tutto in maniera semplice, chiara, rigorosa e allo stesso tempo avvincente? Il giornalismo di qualità costa, ma la maggior parte di coloro che dicono di volerlo poi non sono più disposti a pagare nulla per averlo, dal momento che di pessima, raffazzonata, sviante o francamente falsa informazione se ne può avere gratis a volontà.
Ma torniamo al podcast dell’altro giorno. Mi ha colpito perché pochi giorni fa sono andata alla Summer School sulla comunicazione della scienza dell’Università di Ginevra proprio a parlare di giornalismo scientifico, di perché è importante, e perché sia tutt’altra cosa, pur con tutte le sovrapposizioni del caso, dalla divulgazione e dalla comunicazione della scienza. Il giornalismo scientifico è prima di tutto “giornalismo”. Non consiste nello spiegare in maniera semplice e accattivante la complessità della scienza, coinvolgere e appassionare le persone, dar loro gli strumenti delle conoscenze acquisite per fare scelte più consapevoli riguardo alla loro salute, al clima, all’energia nucleare o a qualunque altro tema che si può comprendere solo con gli strumenti della scienza. Queste sono tutte importanti attività di divulgazione e comunicazione della scienza, ma non sono giornalismo. Il giornalista non è al servizio degli scienziati o delle istituzioni, né ha come oggetto solo le scoperte scientifiche. Come giornalista ha il dovere di fare da cane da guardia al potere, non solo politico, ma anche accademico o industriale. La scienza non è più l’impresa idealistica di qualche genio isolato, ma un importante sistema di potere, personale ed economico, e quindi come ogni altro sistema di potere in democrazia deve essere oggetto di un sistema di bilanciamenti e controlli, di cui anche la libera stampa dovrebbe far parte.
Ed è questo che hanno fatto i giornalisti del New York Times, andando a verificare in che cosa consistevano i tagli imposti alla ricerca statunitense dal Presidente Donald Trump fin dal primo giorno del suo insediamento, soffermandosi in particolare sui National Institutes of Health, la più importante agenzia pubblica di finanziamento della ricerca biomedica che esista al mondo (e speriamo che continui a esserlo). Con l’aiuto dei colleghi in grado di dare senso a numeri e sigle elencate nei database, il team di Emily Anthes è riuscito a individuare quali siano gli studi cui sono stati interrotti o non riconfermati i finanziamenti. A cadere sotto l’accetta della nuova amministrazione sono stati da un lato gli studi che, indipendentemente dal loro oggetto, sono portati avanti da scienziati che hanno avuto accesso a fondi specificamente riservati a ricercatori appartenenti a minoranze svantaggiate, per area o ceto di origine, per disabilità, etnia, eccetera. Ma soprattutto sono stati attaccati i filoni di ricerca che cercavano di rispondere a domande riguardanti queste stesse minoranze, quelle che in passato non sono state studiate in maniera adeguata: per esempio, le cause dell’eccesso di mortalità materna tra le donne afroamericane, che negli Stati Uniti è un problema enorme, ma anche ricerche più di nicchia, non per questo da ignorare, come il rischio di suicidio nelle donne bisessuali.
Fa impressione anche il criterio con cui sono stati individuati tra decine di migliaia questi studi da tagliare. Trovarli era un’impresa, come cercare un ago in un pagliaio. L’unico modo che è venuto in mente alle persone incaricate di questa “sfrondatura”, come già mi pareva di averti accennato in una precedente puntata, è stato stilare un elenco di parole chiave che indicassero temi da sacrificare: tutto ciò che riguarda sesso e genere, ovviamente, ma anche le parole “donna” e “donne”, ogni riferimento all’etnia, ma anche più genericamente ai termini che definiscono le politiche DEI, acronimo per Diversity, Equity and Inclusion. Col risultato paradossale di non bloccare solo il lavoro di scienziati ritenuti “woke” dal movimento trumpiano, ma anche chi studiava la “diversity”, cioè la variabilità genetica del cancro o quella delle piante in un determinato ambiente.
La giornalista del New York Times dice che nel frattempo si stanno preparando nuovi bandi per chi voglia studiare il pentimento delle persone trans che vorrebbero tornare indietro dopo gli interventi o, naturalmente, i rischi legati ai vaccini. Ma questo ci porta al prossimo blocco. Intanto, per fortuna ci sono giudici che cercano di fermare questa rivoluzione che rischia di compromettere, se già non è accaduto, la leadership statunitense nel mondo della scienza. Il giudice federale del Massachusetts William Young, per esempio, ha imposto ai NIH di riaprire le linee di finanziamento a circa 900 studi. Come per la deportazione degli immigrati, si è arrivati a un braccio di ferro tra potere politico e potere giudiziario nei suoi vari gradi. Non un bello spettacolo, francamente, soprattutto per i ricercatori che hanno bisogno di poter contare su una certa stabilità e una visione almeno di medio periodo per poter portare avanti il loro lavoro.
Su Valigia Blu puoi leggere in italiano un approfondito articolo di Antonio Scalari su quel che sta accadendo e potrà accadere alla scienza americana, anche al di là della ricerca che riguarda direttamente la salute. Perché poi tutto, lo sai, alla fine si traduce in un impatto sulla salute, anche l’uragano che non si può più prevedere o la rimozione delle misure per il monitoraggio e il contenimento del cambiamento climatico.
«La scienza ha questa strana tendenza a dirti cose che non volevi sapere e a darti risposte che non volevi» Paul Krugman, citato da Antonio Scalari.
Vaccinazioni a rischio
Anche della minaccia alla salute pubblica rappresentata dalla nomina di Robert F Kennedy a segretario degli Health and Human Services abbiamo già parlato, eppure, anche in questo caso, la realtà non smentisce le più fosche previsioni.
Al licenziamento dei membri dell’’Advisory Committee on Immunization Practices (ACIP), cioè degli esperti che suggerivano le politiche vaccinali da seguire soppesando rischi e benefici di ogni pratica, sono seguite in un paio di giorni otto nomine che, al di là del favore o dello scetticismo nei confronti dei vaccini, soprattutto non mostrano nemmeno un’ombra della competenza di chi li ha preceduti. Non c’è solo Robert Malone, divenuto noto durante la pandemia per le sue aspre critiche ai vaccini a mRNA, sulla cui tecnologia aveva inizialmente lavorato, molti anni fa. Oggi però è conosciuto soprattutto per il suo blog e i suoi interventi pubblici in cui raccomanda trattamenti discutibili per covid e morbillo. Abbiamo Vicky Pebsworth, direttrice regionale di un’associazione di infermiere cattoliche e del National Vaccine Information Center, una struttura che, nonostante il nome falsamente autorevole, è riconosciuta come un’importante fonte di disinformazione sui vaccini. Infatti, fino a poco fa si chiamava Dissatisfied Patients Together.
Non è l’ultimo arrivato lo svedese Martin Kulldorff, un biostatistico che, come peraltro anche Pebsworth, ha fatto parte di comitati istituzionali per la sicurezza dei vaccini. Con Jay Bhattachrya, ora nominato a capo dei National Institutes of Health sopra citati, è autore della Great Barrington Declaration, con cui nel 2020, prima dell’arrivo dei vaccini, si suggeriva di togliere ogni restrizione, se non agli anziani, perché tra i giovani si creasse un’immunità di gruppo.
“Il nuovo panel è riuscito a votare contro una sostanza ritenuta sicura, ma che per prudenza è già stata tolta dai vaccini da 25 anni”
Poi c’è uno psichiatra e nutrizionista, un medico di urgenza esperto di sanità, un ginecologo, un docente di “operations management” al Massachusetts Institute of Technology, tutte persone senza competenza specifica in ambito vaccinale, ma che hanno il “merito” di essersi espressi durante covid per politiche libertarie e abbastanza ostili a vaccini e mascherine.
L’unico pediatra del gruppo è Cody Meissner, docente alla Dartmouth's Geisel School of Medicine: recentemente ha condiviso l’opposizione di Kennedy alla vaccinazione contro covid dei bambini sani e delle donne in gravidanza, ma nel primo meeting del nuovo comitato si è distinto per aver respinto alcune affermazioni antiscientifiche e per aver chiuso la bocca al collega che avanzava dubbi su un nuovo anticorpo monoclonale contro il virus respiratorio sinciziale (RSV), che infatti ha ottenuto il via libera.
Pare però che a un certo punto del dibattito un membro del comitato abbia chiesto al personale dei Centers for Disease Prevention and Control (CDC) se dietro l’ondata influenzale di quest’anno non ci potesse essere uno schema energetico di qualche tipo. E non è passato inosservato che, nel chiedere l’eliminazione del Thimerosal (prodotto a base di mercurio) dai vaccini antinfluenzali, sia stato citato uno studio inesistente. L’autore citato impropriamente ha anzi precisato di aver condotto e pubblicato su un’altra rivista uno studio simile, ma su altri modelli animali e con risultati del tutto rassicuranti, che cioè sostenevano il contrario della tesi portata avanti nel corso dell’incontro dell’ACIP. In ogni caso, alla fine il comitato ha votato contro la raccomandazione di aggiungere thimerosal nei vaccini antinfluenzali per qualunque fascia di età, una battaglia di cui Kennedy si era fatto portavoce anche attraverso un libro. D’ora in poi, quindi, basta thimerosal nei vaccini! E che importa se questa sostanza, peraltro ritenuta del tutto sicura, è già stata eliminata dai vaccini per l’infanzia dal 1999 e contenuta solo nei prodotti multidose per adulti, usati solo marginalmente (per non dire mai) nei Paesi ad alto reddito come gli Stati Uniti.
E con questo, direi che ti posso proprio salutare, non prima di averti suggerito la newsletter di Stefano Feltri su covid che ho già restackato il giorno in cui è uscita.
Per il resto, mi verrebbe la tentazione di riempirti di raccomandazioni come faccio con i miei figli: non fumare, non bere, mettiti la crema,.. ma capisco che il mi maternalismo a volte può essere fastidioso, anzi, insopportabile. Perciò scusa.
Se sei un abbonata o un abbonato che contribuisce anche economicamente a questa newsletter non escludo che ci si senta anche in questo mese, con qualche edizione speciale suscitata da qualche pensiero estivo, altrimenti ci sentiamo ai primi di agosto.
Ciao!
Passa giorni belli.
Buone vacanze!