#38 La crisi del CLIMA fa male alla salute
Per troppi anni si è parlato di “salvare il pianeta”, mentre a pagare i danni del cambiamento climatico è prima di tutto l’umanità, che però può ancora agire
Ormai tutti (o quasi) siamo stati contagiati dal fenomeno Halloween, per cui ieri, se non fosse sembrato troppo scherzoso in un contesto di festa e irrispettoso verso le tante persone che soffrono e muoiono per queste minacce al nostro benessere, avrei voluto chiedere, in una storia su Instagram: “Che cosa ti fa più paura?”. Tra le opzioni avrei messo il rischio di una nuova guerra mondiale; la precarietà economica; le immigrazioni incontrollate; una nuova pandemia, magari da aviaria; la crisi climatica; il cedimento della democrazia e dei suoi valori. O magari anche che l’Europa ci obblighi presto a mangiare “carne sintetica” e insetti. Oppure una rielezione di Trump, che potrebbe influire sul verificarsi o aggravarsi di alcuni di questi eventi non solo per chi vive negli Stati Uniti, ma anche per il resto della popolazione globale, che pure non ha diritto di voto nelle prossime elezioni presidenziali.
Onestamente, però, io stessa non avrei saputo optare per una sola scelta. Molte tra quelle citate sono preoccupazioni che si sommano e amplificano quelle personali, che in questi giorni, ti confesso, non mancano. Io fisicamente sto bene, tranquilli, ma good vibes, preghiere, pensieri positivi o qualunque forma di magia buona vogliate mandarmi per le persone a me più care, è davvero benvenuta.
Conto alla rovescia tra salute e clima
C’erano diversi argomenti di cui ti volevo parlare questa settimana, ma le immagini, i video, i numeri provenienti da Valencia e dal resto della Spagna (oltre agli avvenimenti in Emilia-Romagna) mi spingono ad affrontare quello che mi pare l’elefante nella stanza: la crisi climatica, la sua accelerazione, la nostra lentezza invece a prenderne atto e reagire.
All’ultimo minuto mi ha convinto a prendere questa strada la pubblicazione del nuovo rapporto Lancet Countdown on Health and Climate Change, un “conto alla rovescia su salute e cambiamento climatico”. L’iniziativa della rivista britannica Lancet ha preso il via già nel 2015, in occasione dell’accordo di Parigi, risultato di uno dei consessi che impegnano oltre 200 Paesi firmatari (l’Unione Europea ha aderito a nome di tutti gli Stati membri) a ridurre i livelli di emissioni di gas climalteranti (in primis anidride carbonica, CO2). Ciò al fine di contenere l’aumento della temperatura globale sotto i 2°C rispetto al periodo preindustriale, impegnandosi a limitarlo a 1,5°C. Inoltre, il documento prevedeva sforzi per migliorare le capacità di adattamento e strumenti finanziari che rendessero possibile e il meno iniqua possibile la transizione energetica.
Da parte sua, Lancet identificò subito, già allora, un aspetto che inizialmente sembrava lasciato sullo sfondo, cioè l’impatto spaventoso di questa crisi sulla salute. Mise insieme quindi centinaia di esperti di tutto il mondo per monitorare l’evoluzione della situazione e il rispetto degli impegni presi, soprattutto in quest’ottica.
A livello globale, invece, siamo arrivati alla COP28 (cioè, alla 28esima Conferenza delle parti; Parigi è stata la COP21) dell’anno scorso a Dubai prima che la salute fosse messa al centro dell’attenzione dei delegati delle parti sul clima. Un po’ più attente le autorità sanitarie internazionali, che la scorsa primavera, riunite nella 77° Assemblea mondiale per la salute (WHA77) hanno ricordato l’importanza del clima per la salute globale, già sottolineata in un primo rapporto del 2009 e di nuovo nel 2021.
La possibilità di un effetto paradosso
Perché parlo di “crisi climatica” e non di “riscaldamento globale”? Perché l’aumento delle temperature medie del globo può creare effetti paradossi, come potrebbe capitare con una sorta di nuova, violenta e (relativamente) improvvisa glaciazione in Europa e Nord America, se si verificasse quel che un nuovo studio ritiene sempre più possibile, cioè la modifica dell’andamento della AMOC (Atlantic Meridional Overturning Circulation), quella che a scuola ci hanno insegnato a chiamare Corrente del Golfo. L’allarme dei ricercatori olandesi, contenuto in un lavoro non ancora sottoposto a peer-review, né pubblicato su una rivista scientifica (per cui da prendere con una doppia dose di molle) non dice di per sé niente di nuovo. Già il disaster movie “The day after tomorrow”, nel 2004, ipotizzava un fenomeno del genere, facendolo accadere (in maniera più che improbabile, per esigenze cinematografiche) nel giro di poche ore. Ma anche la prospettiva temporale della ricerca appena diffusa online è inquietante perché, sulla base dei rilievi di salinità misurati nell’Oceano Atlantico, il fenomeno potrebbe verificarsi tra il 2037 e il 2064, più probabilmente intorno al 2050. Non così lontano, se ci pensi. Ai limiti inferiori potrei fare a tempo a vederlo anch’io.
Quando si parlava solo di “riscaldamento globale”, già si immaginava potesse facilitare la diffusione di malattie tropicali alle nostre latitudini (cosa che infatti si sta puntualmente verificando), ma a livello di decisori politici – e tanto meno di opinione pubblica – la ricaduta del cambiamento sulla salute sembrava secondaria.
L’obiettivo era “salvare il pianeta”, mentre ormai è sempre più evidente che il pianeta sopravviverà anche a questa catastrofe, se dovesse arrivare a essere definita tale, così come è sopravvissuto ad asteroidi, eruzioni vulcaniche e glaciazioni. Sicuramente anche la vita, per la resilienza che ha dimostrato in milioni di anni, troverà il modo di adattarsi e proseguire. Siamo noi umani o, meglio, la civiltà che abbiamo costruito, che potrebbe autodistruggersi.
E così, dopo questa incoraggiante introduzione, fammi passare ai dati.
Numeri che disegnano una realtà
L’ultimo rapporto di Lancet, che ha coinvolto più di 120 esperti di diverse agenzie delle Nazioni unite e delle più prestigiose istituzioni accademiche del mondo, si trova a dover comunicare i peggiori risultati mai osservati in 8 anni di monitoraggio, eseguito tenendo conto di 56 indicatori, raggruppati in 5 aree: una misura i pericoli per la salute, il livello di esposizione e l’impatto derivanti dalla crisi climatica; una le iniziative per l’adattamento, la pianificazione delle risposte, la capacità di resilienza a queste minacce; una le azioni di mitigazione del rischio e i benefici secondari per la salute che ne possono derivare; una affronta gli aspetti economici e finanziari; l’ultima il coinvolgimento della politica e del pubblico nella questione. Vorrei riportare per intero la tabella riportata dal documento, ma mi dilungherei troppo. Puoi però trovare tutti gli approfondimenti che vuoi nel paper e su questa piattaforma interattiva, davvero interessante, chiara e molto ben fatta.
In sintesi, il nuovo rapporto ci dice che nel 2023, la popolazione mondiale è stata esposta in media a 50 giorni in più di un caldo minaccioso per la salute rispetto a quel che ci si potrebbe aspettare senza la crisi climatica, il che ha portato al 167% di morti in più l’anno tra gli ultra 65enni rispetto agli anni novanta del secolo scorso. Sempre per il caldo è diminuito il numero di ore di sonno rispetto ai primi anni Duemila e si è ridotto il numero di ore in cui si poteva fare attività fisica all’aperto, con un impatto sia in termini di prevenzione, sia di possibilità di lavoro. Infine, al calore eccessivo nell’ambiente esterno e nelle case, è corrisposto un surriscaldamento emotivo record delle conversazioni online. Anche di questo, forse, ci siamo accorti, pur senza darne la colpa ai livelli di CO2 nell’atmosfera.
Cosa c’entrano le migrazioni?
La siccità ha colpito a livelli estremi quasi la metà della superficie terrestre, favorendo in alcune aree l’esposizione a pericolose polveri del deserto, in altre a un aumento del 66% del rischio di incendi rispetto ai primi anni di questo secolo. Siccità e ondate di calore hanno portato nel 2022 a oltre 150 milioni di persone in più che hanno fatto fatica a procurarsi il cibo rispetto alla media del periodo 1986-2010.
Pensi che qualcuno vorrà restare a vedere i propri figli morire di fame, per il rischio di essere portato in Albania? L’impatto della crisi climatica sulle migrazioni dipende, e dipenderà sempre più, non solo dall’insicurezza alimentare provocata direttamente da caldo e siccità, ma anche dalle guerre che ne seguiranno (come se non bastassero quelle che ci sono) e dall’innalzamento dei livelli del mare. Questo non solo sta già costringendo fisicamente alcune popolazioni, soprattutto dell’Oceano Pacifico, ad abbandonare le loro case, ma provocherà sempre più spesso la contaminazione con acqua salata delle falde acquifere e dei campi, portando allo stesso risultato in Bangladesh (sì, proprio uno dei paesi “sicuri” da cui provenivano alcuni dei migranti portati avanti e indietro sull’Adriatico). Leggi Amitav Gosh, se ti capita. “L’isola dei fucili” è anche un gradevole romanzo.
Ma torniamo ai dati del rapporto. Sull’aumento delle malattie infettive prima esclusivamente tropicali, le epidemie di dengue in zone prima insospettabili (quest’anno in Italia abbiamo già più di 200 casi autoctoni, soprattutto nella zona di Fano), indicano a che punto siamo in termini di preparedness e di nuove iniziative indispensabili per adattarci al cambiamento: le misure di bonifica e protezione contro le zanzare sono ormai indispensabili anche in Italia, e non possono più limitarsi ai mesi estivi, perché Aedes albopictus, la zanzara tigre che porta, tra gli altri, il virus della dengue, resiste benissimo alle temperature autunnali (tra l’altro, quest’anno, straordinariamente miti).
Sempre in termini di preparedness, fa rabbia sentire (e vedere) come i cittadini di Valencia e dintorni non siano stati minimamente avvisati di quel che stava capitando. Non solo, il Consell, cioè il governo della città, a novembre dello scorso anno, ha abolito appena entrato in carica l'Unità di emergenza, compiacendosi di aver così eliminato uno spreco di denaro. L’iniziativa era nel suo programma elettorale ed era caldeggiata da Vox, il partito di estrema destra che lo sostiene.
Attenzione, la responsabilità della scelta è quindi condivisa dagli elettori, che hanno creduto all’equazione tra prevenzione e spreco di denaro pubblico, tanto che l’Unità di emergenza era soprannominata da chi la riteneva superflua il “chiringuito”. Una dinamica che vediamo spesso anche nelle malattie infettive e di cui quindi tu, se mi segui, avrai letto più volte, in relazione all’esempio dei terremoti qui e alla malefica commistione tra lotta politica e salute dei cittadini qui, anche in relazione ai vaccini.
D’altra parte, lo abbiamo visto anche in occasione degli ultimi, terribili, uragani che hanno spazzato gli Stati Uniti: l’ultimo che ha colpito la Florida, Milton, era molto più violento di Hélene, che era passato pochi giorni prima. Hélene, tuttavia, ha colpito anche territori del tutto impreparati, come il North Carolina, dove ha provocato più di 200 vittime, mentre tutto sommato il temutissimo Milton, definito come “la tempesta del secolo” abbattendosi sulla Florida, che sa come proteggersi, ha lasciato sul suo percorso solo 17 vittime, oltre ovviamente agli inevitabili danni materiali.
Allora, che fare?
Spero che tu sia arrivato o arrivata a leggere fin qui, perché la reazione peggiore che possiamo avere davanti a queste notizie è credere che non ci sia niente da fare, e quindi tanto vale goderci il tempo che ci resta. Non è così. I ritardi della politica (sostenuti, ricordiamolo sempre, dalla ricerca del NOSTRO consenso, non solo di quello dei petrolieri, perché nelle urne votiamo tutti noi, quando votiamo) non ci devono scoraggiare.
“E cosa dobbiamo fare? Un bell'elenco dettagliato con gli effetti previsti sul cambiamento. Pannellino, cappottino, auto elettrica, niente viaggi, niente acquisti su Amazon, niente superfluo. Per quanto tempo? Con quali effetti. Avanti”, ha commentato un mio post una persona su Facebook.
Non prendiamoci in giro, perché l’ironia (così come il sarcasmo, non servono). Ogni piccolo gesto che ciascuno di noi fa nella sua vita quotidiana per ridurre le emissioni e la propria impronta sul pianeta può essere utile, anche perché diventa contagioso, mostrando ad altri che si può fare, ma anche che già, di per sé, può migliorare la qualità della vita. Non staremmo tutti meglio con meno traffico, meno inquinamento, più sani perché facciamo più attività fisica e mangiamo meglio (meno carne, specialmente)? Ma è chiaro che tutto questo non basta. La difficoltà di risposta a questa crisi globale e complessa è ancor più globale e complessa, ma ciò non deve diventare un alibi.
Invece, nel 2023, la copertura mediatica e l’impegno di alcuni governi risulta calata, proprio in risposta all’ultima fase di evoluzione del negazionismo climatico: prima si diceva che il riscaldamento globale non esisteva, poi che oscillazioni nella temperatura media del pianeta ci sono sempre state, poi che non dipendeva dalle attività umane, infine, oggi, che tanto è troppo tardi e non c’è nulla da fare.
Beh, non è così. Da fare c’è, e moltissimo, sia in termini di mitigazione (cioè, per rallentare il riscaldamento del globo), sia in termini di adattamento ai cambiamenti ormai inevitabili, sia in termini di consapevolezza e preparazione agli eventi estremi, per ridurne i danni su cose e persone.
Il nostro principale compito, come cittadini, è far sapere ai decisori che no, non siamo contenti dei dazi sulle auto elettriche cinesi, perché questo rallenterà la transizione energetica senza salvare l’industria europea dell’auto (e non penso si possa credere che la necessità di sostituire quelle perse nelle alluvioni rappresenti un buon incentivo). Le auto elettriche sono la soluzione? Hanno impatto zero? Certo che no, ma sono un passo avanti.
Dai 25°C in Canada di questi giorni al monte Fuji per la prima volta da che si ricordi a fine ottobre senza neve, al nostro pranzetto sul balcone di Siena il primo novembre, a 22°C
Viceversa, chiedo agli ambientalisti de’ noantri, che paradossalmente si oppongono alle rinnovabili, perché i pannelli solari e le pale eoliche rovinano il paesaggio: forse avreste impedito di costruire i mulini a vento anche sulle Cicladi, per non compromettere la loro insuperabile bellezza? Non nego che alcune aree vadano preservate e che i tetti di un borgo medioevale non possano essere rivestiti di vetri a specchio. Ma occorre stabilire delle priorità. E la priorità, oggi, è rappresentata dal principale dato proveniente dal rapporto di Lancet, cioè che, con le politiche attuali, siamo un treno lanciato per arrivare a un aumento delle temperature di 2,7 °C, un cambiamento cui sarà veramente difficile adattarsi.
Prevengo il messaggio whatsapp che mi aspetto arrivare da mio figlio, seguace dell’Avvocato dell’atomo, subito dopo che avrà letto la newsletter: no, non avremmo evitato tutto questo solo mantenendo il nucleare in Italia all’ultimo referendum, ma sì, a mio parere si può anche discutere se la costruzione di nuove centrali possa aiutare la transizione. Lo contempla anche l’IPCC (il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico, un organismo dell’Onu che studia da decenni la crisi climatica). Non illuderti, però, che questo basti a continuare a vivere come viviamo ora. Un cambiamento sarà comunque necessario, e sarà a vantaggio di tutti.
Sui danni a lungo termine che può provocare un’alluvione, come quella che vediamo in questi giorni in Spagna, ma anche come le tante che continuano a colpire il nostro Paese, ho scritto un pezzo per Dottore, ma è vero che?, un sito che continuo a raccomandarti di consultare, in cerca di curiosità o di risposte su temi di attualità. Al bilancio già drammatico dovuto ad annegamenti, traumi o altre conseguenze dirette o indirette della furia delle acque vanno infatti aggiunte conseguenze di salute che vanno oltre i primi giorni dell’emergenza. Ci possono essere malattie infettive favorite dalla contaminazione delle acque o avvelenamenti e intossicazioni dovuti alla dispersione di sostanze chimiche. Si stima che l'impatto sull'aspettativa di vita delle popolazioni colpite si possa trascinare anche per molti anni, non solo per queste ragioni, ma anche per i danni inferti alle infrastrutture e al tessuto economico e sociale, che ne peggiorano le condizioni di vita. Puoi leggere tutto, con relative fonti e consigli per proteggersi, qui.
Sui social media, nei giorni scorsi, ho pubblicato un aggiornamento sull’influenza aviaria H5N1 in USA, che ti sintetizzo qui:
NOVITÀ SULL'AVIARIA IN USA
- Le autorità sanitarie statunitensi hanno individuato per la prima volta in USA il virus dell'influenza aviaria H5N1 in un maiale con un’infezione sistemica in una fattoria dell'Oregon. Un altro è sospetto. Il maiale possiede anche recettori per i virus influenzali umani, per cui, con la stagione invernale alle porte, c’è il rischio che i due si ricombinino tra loro, dando origine a un virus nuovo, potenzialmente pandemico. La notizia, quindi, secondo gli esperti, fa scattare di un livello il grado di allarme su questa minaccia.
- Il virus H5N1 prelevato da un paziente texano contagiato dalle vacche da latte ha dimostrato di trasmettersi tra i furetti da esperimento, come già si era visto con quello prelevato dai bovini. I dati pubblicati su Nature mostrano negli animali contagiati, usati da sempre per studiare l'influenza, una malattia più grave di quanto capitasse con lo stesso ceppo prima che arrivasse ai bovini.
- Tre coltivatori di polli con sintomi di aviaria hanno tranquillamente viaggiato dallo stato di Washington all’Oregon: i casi umani in USA nel 2024 sono arrivati a 39, la maggior parte nelle ultime settimane.
Che dirti? Godiamoci questo weekend di falsa primavera! Ciao!
Ringrazio Marco Ferrari che ha rivisto e corretto questa puntata <3
Mi vengono in mente tutte le polemiche per la corruzione del Mose a Venezia