#31 Via gli SMARTPHONE e i SOCIAL MEDIA!
Da tutto il mondo si alzano appelli o si approvano norme per vietare cellulari e social sotto una certa età. Ma sarà questa la soluzione per il benessere mentale dei ragazzi?
Non nascondo di essere una boomer. Mi sono convertita al kindle per praticità, ma adoro il profumo della carta, i negozi di cancelleria, la sensazione della penna sul foglio, che sembra poter fissare i pensieri per sempre. Su questo sto con il ministro dell’istruzione e del merito Giuseppe Valditara. Mi sembra impossibile ottenere una buona preparazione universitaria senza aprire un libro, studiando solo sugli appunti online e per quanto provi a usare app e altri strumenti, le liste di cose da fare mi funzionano solo se le scrivo e le barro a una a una a mano (salvo poi trovarmi spesso a non capire che cosa ho scritto per la mia grafia illeggibile, unica prova provata della mia laurea in medicina).
E ancora, forse a causa della mia veneranda età, resto sconcertata ogni volta che vedo smartphone e tablet tra le mani di bambini di pochi mesi, usati per intrattenerli per ore, specie al ristorante o in altre occasioni conviviali. Forse mi fa ancora più male quando con gli occhi fissi sullo schermo a tavola ci sono ragazzini più grandi, che potrebbero essere coinvolti nei discorsi degli adulti. Ma siamo onesti: sono loro che si isolano o in fondo in fondo ci va bene così? E i problemi di salute mentale derivano dall’uso degli smartphone o, viceversa, i ragazzi si buttano su quelli perché non hanno di meglio da fare, per sfuggire alla solitudine o per cercare quel che non possono trovare intorno a loro? Davvero non lo so, e quel che ho letto non è stato sufficiente per convincermi che la causa principale del disagio dei nostri figli siano i cellulari o i social media. D’altra parte, è anche chiaro che è difficile mantenere l’attenzione dei ragazzi se sotto il banco chattano, navigano o postano su TikTok.
Il tema è molto polarizzante, ma per una volta la discriminante è di natura culturale e generazionale più che politica, e trasversale a tutti i continenti.
Un movimento bipartisan
Non mi scandalizza quindi la circolare estiva del ministro Valditara, per cui i ragazzi della scuola primaria e secondaria di primo grado tornano a scuola in questi giorni con il divieto di usare il telefono cellulare in classe. Potranno utilizzarlo solo gli alunni con bisogni speciali. Non è una grandissima novità. In molte scuole elementari e medie è già così e gli insegnanti raccolgono i dispositivi sulla cattedra all’inizio delle lezioni, per restituirli solo a fine giornata. Quel che mi sembra discutibile è il divieto di usarli anche a scopo didattico, mentre restano leciti tablet e computer, il cui costo accentuerà le diseguaglianze. Inoltre, non ci si potrà più affidare al registro elettronico, ma i docenti, tempo permettendo, dovrebbero verificare che ogni studente prenda nota dei compiti anche sul diario.
A queste “controinnovazioni” si aggiunge l’appello avanzato in questi giorni da due esperti di fama come Daniele Novara e Alberto Pellai, insieme a un gruppo di psicologi e pedagogisti (cui segue anche un elenco di firme di attrici e attori della Unione Nazionale Interpreti Teatro e Audiovisivo, la cui competenza in merito mi sfugge). La proposta è in questo caso anche più radicale, perché esce dall’ambito scolastico, chiedendo di vietare del tutto il possesso di uno smartphone personale sotto i 14 anni e l’accesso ai social network prima dei 16.
Il tema è molto polarizzante, ma per una volta la discriminante è di natura culturale e generazionale più che politica, e trasversale a tutti i continenti. Iniziative simili a quella italiana si stanno infatti prendendo in tutta Europa. Nel frattempo, anche molti stati americani e una catena di scuole inglesi che accoglie 35.000 alunni ha deciso di vietare i telefoni a scuola.
Nel Regno Unito, la metà dei ragazzini sotto i 13 anni è già sui social media e un quarto dei bambini di 3-4 anni già possiede uno smartphone. In un contesto così, come si può pensare di far rispettare la proposta avanzata in primavera di alzare a 16 anni la soglia per acquistare un cellulare e avere un account social? Le principali piattaforme già prevedono un limite di 13 anni di età, che viene aggirato senza difficoltà, spesso con il consenso della famiglia. Eppure anche in Australia si parla di bandire l’uso dei social media prima dei 14-16 anni senza l’autorizzazione dei genitori. Negli Stati Uniti, poi, l’allarme è stato lanciato addirittura dal Surgeon General Vivek H. Murthy, la più alta autorità sanitaria federale, che a giugno, dalle pagine del New York Times, ha invocato l’apposizione di scritte tipo quelle sui pacchetti di sigaretta, che avvertano gli utenti del grave rischio rappresentato dai social media per i più giovani. Insomma, il governo italiano è in buona compagnia.
Che cosa dice la scienza?
Ma questa “Generazione ansiosa”, come titola il best-seller di Jonathan Haidt, tradotto in Italia da Rizzoli (che confesso di non avere ancora letto), è stata davvero rovinata dai social, come spoilera il sottotitolo? Ed è vero che i ragazzi hanno una vera e propria dipendenza dai cellulari? Non tutti gli esperti ne sono convinti.
Alimentando lo spettro della dipendenza tecnologica, applicando a cellulari e social media le categorie usate per la cocaina, come ben spiega la giornalista scientifica ed esperta di tecnologie Elisabetta Tola in questo articolo su Valigia Blu, non si affronta in maniera serena e obiettiva la questione. Nessuno nega che esista il rischio di un uso problematico della tecnologia (problematic smartphone usage, in gergo PSU), e lo vediamo tutti i giorni, prima di tutto su noi stessi, ma questo (almeno per ora) non rientra tra le dipendenze previste dalla Bibbia della psichiatria, cioè il Manuale Diagnostico Statistico dei Disturbi Mentali (DSM). Molto illuminanti sono anche le riflessioni della neuropsicologa Tiziana Metitieri, che insieme alla stessa Tola e alla pedagogista Paola Cagliari hanno sviscerato il tema nella puntata di martedì scorso di Radio3Scienza. Le prove del legame di causa ed effetto tra l’accesso ai social media dai cellulari e il malessere dei più giovani sarebbero tutt’altro che solide. Da ogni parte si sottolinea l’enorme impatto e l’aumento negli ultimi anni di questo disagio, in termine di ansia, depressione, attacchi di panico, disturbi del comportamento alimentare e altri sintomi meno strutturati. Ma siamo sicuri che la colpa è del cellulare? O come al solito cerchiamo un capro espiatorio su cui concentrare tutte le responsabilità di un fenomeno complesso che pensiamo di liquidare con una soluzione semplice, di solito un divieto (o, a seconda dei casi, un aumento delle pene)?
Ah, i bei tempi andati!
Ma poi, tolto il disturbo del cellulare in classe, le cose sono poi così tanto cambiate? A me pare che i nostri ragazzi chattano o si videochiamano con gli amici come noi stavamo ore al telefono, tanto che molti genitori ci mettevano un lucchetto, per evitare brutte sorprese nelle bollette. Non voglio negare che certi contenuti su TikTok possano incanalare problemi preesistenti verso disturbi del comportamento alimentare, o aggravarli, ma lo stesso si diceva nel secolo scorso delle indossatrici che sfilavano in passerella; certo che in rete si è esposti al rischio di fare cattivi incontri o subire cyberbullismo, ma anche a noi insegnavano a non accettare caramelle (invece che cookies) dagli sconosciuti; ovvio che non è sano stare ore attaccati ai video di Youtube, ma lo stesso rimproveravano a noi con la TV e poi con i videogiochi. Loro vivono con la musica degli auricolari nelle orecchie, noi lo facevamo con i walkman.
Se ripenso alla nostra infanzia, non penso che fossimo esposti a meno pericoli. Semplicemente, le famiglie ne erano meno coscienti, non si pensava sempre e solo a proteggere i figli da tutto e da tutti. E non voglio accodarmi ai gruppi dei “nati negli anni Sessanta” che si vantano di essere sopravvissuti senza seggiolini dell’auto o caschi in motorino, perché ricordo gli amici che non sono qui a raccontarlo. È una conquista di civiltà poter evitare tante tragedie. Ma sotto altri aspetti la maggior sicurezza che chiediamo oggi ha un prezzo in termini di autonomia e crescita individuale.
Al ritorno a casa dal primo giorno in prima media il figlio di un amico ha chiesto ai genitori: “Sai quanti siamo in classe a non avere il cellulare? Solo io”. E il padre si chiede e mi chiede: “Quanto resisteremo a non prenderglielo, col rischio che rimanga isolato dal gruppo, visto che tra loro comunicano su WhatsApp?”.
Alle elementari io tornavo a casa all’una con mio padre, mangiavo con il resto della mia famiglia, in mezz’ora avevo finito i compiti, dopo di che scorrazzavo per boschi e prati con una banda di ragazzini senza nessun controllo da parte di adulti fino a quando l’imbrunire suggeriva che era ora di tornare a casa. Mi viene la pelle d’oca a pensare alla libertà che avevamo, ma anche ai rischi che abbiamo corso: di farci male o di fare cattivi incontri. Anche nelle città si giocava senza costrizioni per strada o nei cortili, ci si alleava e ci si azzuffava, ci si confrontava con se stessi e con gli altri senza che un adulto ci mettesse il becco. Qualcuno maturava, qualcuno soccombeva. Non c’era “cyberbullismo”, ma anche senza il prefisso, c’era chi ci lasciava la pelle, o almeno la fiducia in se stesso.
Oggi alla maggior parte dei nostri figli è negato quasi completamente un tempo da gestire in autonomia, all’aperto, insieme a dei coetanei. Nemmeno all’intervallo possono correre o giocare senza qualcuno che si preoccupi dell’orrenda eventualità di un ginocchio sbucciato. I più fortunati, dopo la scuola, accedono ad attività organizzate sotto la supervisione di uno o più adulti. Gli altri restano in casa da soli, o con un nonno. Secondo i dati Eurostat, più della metà dei bambini italiani sono figli unici, spesso cresciuti in mezzo agli adulti che da un lato li idolatrano e dall’altro sembrano ignorarne i bisogni essenziali: i tempi e i modi del gioco, il ritmo del sonno, le relazioni con i grandi e con i pari.
Quel che serve è un’educazione digitale
Insomma, cerchiamo di liberarci dall’ossessione dei bei tempi andati e proviamo a guardare la realtà in maniera obiettiva. Oggi i bambini non fanno la vita che facevamo noi. Avere uno smartphone significa restare in contatto con il genitore separato senza dover passare attraverso l’altro, e risparmiandosi così discussioni e tensioni; significa poter raggiungere sempre un adulto per poter chiedere aiuto o un amico per chiacchierare un po’ nei lunghi pomeriggi in casa da soli; significa ascoltare musica, leggere, scrivere e commentare romanzi su Wattpad; significa anche avere tra le mani una sconfinata gamma di informazioni e contenuti, alcuni preziosi, altri inadatti o francamente dannosi, certo. Ma è una realtà che riguarda tutti e li riguarderà per tutta la vita: siamo sicuri che bloccarne l’accesso sia meglio che insegnar loro a muoversi in esso nel modo migliore?
Secondo i dati della XIV edizione dell’Atlante dell’infanzia a rischio in Italia, dal titolo “Tempi digitali” quasi l’80 per cento dei ragazzini delle medie accede a internet tutti i giorni, per lo più tramite cellulare, strumento che usa quotidianamente anche il 30 per cento dei bimbi delle elementari. Lo stesso rapporto denuncia che a fronte di questa familiarità, le competenze digitali dei nostri ragazzi sono tra le più basse di Europa.
E dove si può rimediare questo se non a scuola, che è la sede dell’apprendimento e della crescita? Il cellulare in classe può e dovrebbe essere strumento di alfabetizzazione e formazione digitale. È qui che si può offrire a tutti la bussola per orientarsi e difendersi in rete, al di là del background culturale e delle competenze delle famiglie, riducendo le diseguaglianze. Con questa circolare, invece, anche le esperienze di successo raccontate da Tola in un altro articolo su Valigia Blu dovranno essere interrotte.
Per questo mi chiedo, e chiedo a te, norme e divieti sono la strada migliore o solo quella apparentemente più facile? La domanda è vecchia come il mondo, perché rimanda a diversi stili educativi ben precedenti all’era in cui viviamo. La differenza è che oggi il mondo cambia così rapidamente che, prima di mettere regole ai più piccoli, siamo noi adulti a sentirci e a essere travolti dalle nuove tecnologie e dalle loro potenzialità. E forse è prima di tutto sul NOSTRO rapporto con la tecnologia e con i social media che secondo me ci dovremmo prima di tutto interrogare.
ANCORA SUI RISCHI DEI CELLULARI…
Si discute da sempre anche della possibilità di un aumento dei casi di cancro dovuto ai telefoni cellulari, oggetti che sono entrati prepotentemente nelle vite di tutti modificando comportamenti, abitudini, stili di vita, linguaggi, approcci al mondo e alla conoscenza, soprattutto da quando sono passati dall’essere semplici “telefoni portatili” a strumenti di comunicazione per iscritto e di accesso alla rete.
Un’innovazione così rivoluzionaria difficilmente non porta con sé anche effetti indesiderati. Per questo l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha commissionato una revisione di tutti i dati disponibili permettendo di arrivare pochi giorni fa a una risposta rassicurante che si può considerare definitiva: i cellulari non provocano il cancro.
A lungo, è serpeggiato il timore che le onde elettromagnetiche emesse da questi device potessero facilitare lo sviluppo di tumori, soprattutto al cervello. Dato il lungo tempo necessario allo sviluppo di queste malattie, per molti anni è stato difficile escludere del tutto questa ipotesi, sebbene le caratteristiche fisiche di queste onde, simili a quelle di televisori e forni a microonde, suggerissero che erano da considerare del tutto sicuri. Sono state condotte moltissime ricerche al riguardo, tendenzialmente tutte tranquillizzanti, sebbene gravate dal sospetto che a finanziarle fossero le aziende produttrici.
Venticinque anni fa un’indagine condotta da esperti indipendenti, INTERPHONE, intervistando persone con tumori cerebrali benigni e maligni e confrontando le loro risposte sull’uso del cellulare con quello di coetanei sani, concluse che non si poteva escludere un aumento del rischio di gliomi con un uso particolarmente elevato, e per questo l’IARC (International Agency for Research on Cancer), a cui molti di questi ricercatori facevano capo, inserì questi dispositivi nel gruppo 2b degli agenti “possibly carcinogenic”, quelli cioè per cui esiste qualche indizio di possibile cancerogenicità.
La stessa agenzia, però, ha recentemente pubblicato studi molto più ampi e metodologicamente più convincenti, come COSMOS, che escludono questo rischio. Su questo, almeno, si può stare tranquilli.
CONTINUA DA UNA PUNTATA PRECEDENTE..
Ti avevo accennato l’altra volta del primo caso di influenza aviaria H5N1negli Stati Uniti, in particolare in Missouri, che non aveva bevuto latte crudo né aveva avuto un contatto noto con animali che potevano avergliela attaccata. I Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie (CDC) di Atlanta hanno pubblicato ieri la sequenza, che corrisponde alla variante circolante tra le vacche da latte.
Gli stessi CDC hanno inoltre rivelato, sempre ieri, che una persona vicina a questa aveva sintomi, ma non è stata sottoposta a tampone.
Molti esperti su X chiedono che le sia fatto subito un test sierologico per confermare un’eventuale trasmissione tra le persone, lamentando il ritardo con cui si stanno scoprendo dettagli, oltre al fatto che i CDC sembrano avere le mani legate rispetto allo stato del Missouri, che ritiene di gestirla in autonomia.
Per quanto riguarda il nuovo virus trasmesso dalle zecche, isolato in Cina e chiamato “Wetland Virus”, ho visto che molte testate italiane hanno parlato di danni al cervello. Non è così, e lo spiego su Dottore, ma è vero che.
Se mi leggi sabato mattina appena sveglia, forse farai a tempo a vedermi in TV, a Omnibus, su La7, dalle 8,50, per parlare di violenza sugli operatori sanitari, ma anche dare qualche consiglio per i vaccini da fare in autunno.
Altrimenti, e in ogni caso, ti auguro, finalmente un fresco weekend!
Aggiungerei solo che questo tema mostra ancora una volta i limiti di un giornalismo che si accomoda in un racconto della realtà e cerca solo di confermarlo, senza verifiche e senza aprire il grandangolo sui problemi sociali più ampi.
Noi abbiamo 2 figli e la pediatra (e la rivista "Un Pediatra per Amico") ci ha aiutato a definire limiti di età e di tempo assieme ai bambini. Hanno avuto entrambi un tablet all'inizio della prima media, con whatsapp e Skype e pochi minuti di videogiochi al giorno, e la figlia grande ha avuto un cellulare all'inizio della terza media. La chiave è considividere, guardare insieme, e dare l'esempio. Spesso siamo noi genitori o i nonni a voler sbirciare il telefono al ristorante, e questo non ci rende credibili se lo vietiamo ai figli.