#33 L’OBESITÀ è una malattia?
Per una volta prendo le distanze dall’OMS, ma su una definizione che a mio parere ha a che fare più con questioni culturali ed economiche che scientifiche
Sono obesa, ma rifiuto l’etichetta di malata che da qualche tempo mi si vorrebbe affibbiare. Mia figlia Benedetta mi rimprovera quando uso in pubblico la parola con la “o” riferendola a me stessa, per timore che mi si rivolti contro, e questo dà misura dello stigma che accompagna questa condizione. Ma io non sono un po' sovrappeso, e nemmeno cicciottella. Da qualche anno sono proprio obesa. Se divido il mio peso in chilogrammi per il quadrato della mia altezza in metri ottengo un risultato – cioè, il mio indice di massa corporea (IMC, o BMI, Body Mass Index, all'inglese) – che descrive la mia come un’obesità importante.
Questo parametro, usato come discrimine, è il primo punto su cui la definizione di obesità come malattia vacilla. In assenza di sintomi o esami per diagnosticarla, questo semplice calcolo è ancora il criterio fondamentale per riconoscere, quantificare e definire come patologico l’eccesso di grasso corporeo di cui siamo carichi. Eppure non è in grado di dirci nemmeno DOVE sia localizzato questo grasso, fattore fondamentale per la sua pericolosità: la stessa quantità di tessuto adiposo localizzato sui fianchi, al sedere o sulle gambe, come più spesso capita a noi donne, per quanto non ci piaccia, non comporta lo stesso rischio di quello viscerale, nella pancia, tipico degli uomini, soprattutto dopo una certa età. Per questo il girovita misurato con un metro da sarto può essere più indicativo del verdetto della bilancia. Ci sono persone che nonostante un pericoloso eccesso di grasso viscerale hanno comunque un peso corporeo nella norma o appena superiore. In base al BMI non sarebbero considerate “malate” e il loro rischio potrebbe restare trascurato. Viceversa, si può uscire dal range previsto per altre ragioni, per esempio per una massa muscolare particolarmente sviluppata. Ecco, non è proprio il mio caso. Non mi racconto nemmeno di avere le ossa grosse. Sono grassa, molto grassa, eppure – ed è qui che volevo arrivare, anche molto più sana di tante persone magre.
Ok, tanti sforzi per nascondermi, tagliare le foto, curare le inquadrature, e adesso basta, eccomi qua, in una foto di questa estate, in uno stato di profondo benessere, nel mio luogo del cuore (foto di Bruno Alfonsi)
Mentre scrivo - tra due giorni chissà, ma vale per tutti - non ho dolori, né disturbi, né sintomi di alcun tipo. La mia pressione arteriosa è perfetta (120/80). Colesterolo, trigliceridi e glicemia largamente sotto i limiti prescritti. Faccio fatica a correre per prendere un treno al volo, ma non so quanti sessantenni magri, sedentari e forti fumatori, abbiano più fiato di me.
Lo dice la scienza. E stop
In un tempo in cui si mettono in dubbio tante verità scientifiche, dall’utilità dei vaccini alla forma del pianeta, sembra non si possa proprio mettere in discussione l’assioma secondo cui l’obesità è una malattia. Il sottotesto, nemmeno tanto implicito, è che si debba “curare”, ovviamente con le armi della medicina.
Era da un po’ che volevo scrivere questa riflessione (l’avevo anticipata anche qua), ma ho trovato il coraggio di farlo solo dopo aver letto un articolo di Julia Belluz sul New York Times che, come me, non è convinta di questo principio, pur ribadito da tante voci autorevoli. Come ricorda Belluz, l’American Medical Association dichiarò l’obesità una malattia nel 2013, contro il parere del suo board, per permettere a chi ne aveva bisogno di accedere alla chirurgia bariatrica ottenendo il rimborso dalle assicurazioni. Per giustificare un intervento chirurgico, questo doveva essere di rimedio a una condizione patologica.
Non c’è alcuna prova a sostegno dell’affermazione secondo cui dichiarare l’obesità una malattia riduca la discriminazione o lo stigma
In Europa, però, non tutti erano d’accordo con questa presa di posizione, basato sulla situazione della sanità americana e sulla speranza che parlare di malattia (non si sa bene come) togliesse lo stigma. Un gruppo di ricercatori danesi per esempio sottolineò la differenza tra il sistema sanitario quasi totalmente privato d’oltreoceano e quelli pubblici o misti europei, dove è più diffusa una concezione dello Stato che in un modo o nell’altro si faccia carico della salute e dei cittadini. Con parole che esprimono perfettamente anche le mie perplessità, scrissero che a loro parere, in uno stato di welfare come quelli dell’Europa occidentale, per il bene generale, è meglio continuare a considerare l’obesità un fattore di rischio e non una malattia.
Infatti, non è affatto certo che l’etichetta di “malattia” comporti un migliore accesso alle cure e agli strumenti di prevenzione (come negli Stati Uniti, dove la possibilità di usufruire di una prestazione dipende dai criteri delle assicurazioni). Al contrario, l’etichetta di “malattia” può portare a un’eccessiva medicalizzazione e al ricorso a più trattamenti di quelli necessari. E ancora: “Non c’è alcuna prova a sostegno dell’affermazione secondo cui dichiarare l’obesità una malattia riduca la discriminazione o lo stigma”. Chiedete ai pazienti oncologici, mi verrebbe da dire. “Al contrario, è più probabile che si verifichi l’effetto opposto, dal momento che un’etichetta di malattia definirebbe categoricamente un corpo obeso come fuori dalla norma”.
Tornando alla chirurgia bariatrica – che ha molti meriti, tra cui la capacità di curare anche il diabete di tipo 2 - si tratta tuttavia pur sempre di una procedura impegnativa, indicata solo per una parte dei pazienti e che comporta una serie di effetti indesiderati prolungati nel tempo. Può essere molto utile, ma non ha cambiato la storia.
Il vero martellamento mediatico per convincerci che l’obesità è una malattia è iniziato qualche anno fa, quando si è cominciata a intravedere all’orizzonte la rivoluzione che potevano portare i farmaci antidiabetici inibitori di GLP-1, il più celebre dei quali, semaglutide, è arrivato a scompigliare le visualizzazioni su Instagram e i trend di TikTok. Come dice la famosa battuta, le due parole che ognuno si vorrebbe più sentir dire dopo “è benigno”, non sono “ti amo”, ma “sei dimagrito/a!”. E infatti la prospettiva di un farmaco che facesse perdere peso è il sacro Graal inseguito da decenni dalle aziende farmaceutiche. E adesso il sogno di avere una sconfinata platea di potenziali clienti cui vendere a caro prezzo un prodotto per la vita comincia a diventare realtà.
Sempre meglio essere normopeso!
Meglio chiarire. Non ho alcun dubbio che l'obesità aumenti il rischio di cancro, diabete, malattie cardiovascolari. Le prove scientifiche sono inequivocabili. Ma l’eccesso di peso è una malattia in sé, un segno di condizioni preesistenti o solo uno tra tanti fattori di rischio o di protezione che ciascuno di noi può mettere sul tavolo? Tra più di un miliardo di persone obese al mondo, c’è chi ingrassa tanto da sviluppare una serie di danni fisici, da ostacolare la respirazione e addirittura bloccare il paziente in un letto. In questo caso mi sembra giusto considerare l’obesità una malattia, che interferisce in maniera significativa con la qualità di vita del paziente. C’è poi chi aumenta di peso in conseguenza ad altre sindromi (per esempio, policistosi ovarica, ipotiroidismo, rare condizioni genetiche), di cui l’obesità è solo una delle possibili manifestazioni, non una malattia in sé. Ma c’è anche chi nel suo corpo grasso non sta affatto male, pur sapendo che il sovrappeso è un fattore di rischio per molte malattie gravi, e che quindi, come gli altri fattori di rischio, sarebbe bene ridurlo o eliminarlo.
Anche il fumo però fa un sacco di guai, eppure ai tabagisti non si ricorda ogni giorno che la loro in fondo è una dipendenza da una sostanza tossica, né si pensa che questo attributo possa sollevarli dallo stigma di cui pure in certi contesti possono soffrire. Per non parlare dell'alcol. Quando dico che non bevo c'è sempre qualche amico, magari medico, che riempiendomi il bicchiere, scherza: "Oh, che brutta malattia! Ma si può guarire, sai?". Ecco, io senza sforzo non bevo quasi mai, non fumo, cerco di limitare carne rossa e insaccati e mangio un sacco di frutta e verdura. E sto bene. Se sono malata io, lo stesso si dovrebbe dire di tutti coloro che fumano e bevono regolarmente vino, aperitivi o superalcolici, dal momento che questa combo riduce l’aspettativa di vita di dieci anni, quanto l’obesità.
Nella prima foto avevo già fatto sei figli, nella seconda avevo vent’anni, e lo so che non ci credete quanto mi sentivo enorme, ma credetemi se vi dico che è così
Può sembrare strano, ma io mi sento molto (ma molto!) meglio, più attiva e perfino più attraente rispetto a quando ero giovane, in perfetta forma (vedi foto sopra, se non mi credi), ma convinta di essere grassa, ossessionata da quei centimetri di troppo sulle cosce che mi rendevano più che insicura e che nella mia mente - ne ero certa- spingevano le persone a guardarmi con disgusto. Giuro.
D’altra parte, avevo una mamma bellissima con lo stesso tormento, per cui in casa mia si parlava sempre di diete e trattamenti anticellulite. Però poi si scansava qualunque attività fisica (non parlo di sport, ma nemmeno di passeggiate o di brevi tratti a piedi se appena si poteva prendere l’auto) e si alternavano periodi a base di beveroni sostitutivi con i suoi famosissimi menu a base di lasagne, cotolette impanate con le patatine fritte e magari perfino un’aggiunta di mozzarella o altri formaggi (perché “la boca non l’è stracca se non la sa de vaca”, “la bocca non è stanca finché non sa di vacca”). E alla fine: “Vi ho fatto la crostata, non la volete proprio?”.
A volte si ingrassa per amore, o per la sua mancanza
La mia era una tipica famiglia italiana in cui preparare il cibo, e farlo ricco, e in abbondanza, era fonte di gratificazione per la cuoca, ma anche principalmente una manifestazione di accudimento, di affetto, di cura. Consumarlo insieme, tra di noi o con tutti gli ospiti che capitavano, chiacchierando e sbocconcellando per ore (“A tavola non si invecchia, lo sai?”) era parte di una tradizione di accoglienza e condivisione che a sua volta mia madre aveva respirato fin da bambina in casa sua.
Si dice che chiedere “Hai mangiato?” sia la più grande manifestazione d’amore e “love language” lo chiama mia figlia Chiara, riferendosi anche ai pranzetti che mi prepara Bruno, perché il cibo significa tanto, per molti di noi. Quando non dormivo di notte perché i bambini erano piccoli, mi sembrava che latte e biscotti mi dessero forza, e anche adesso sono un comfort-food per le giornate no. Ma mangio anche per sfogare la rabbia, rilassarmi se sono tesa, festeggiare se sono contenta, premiarmi per una soddisfazione che ho ricevuto o anche solo per coccolarmi un po’ godendomi un momento di piacere e relax. Ogni scusa è buona. Lo so. Sarà il “love language” che ho imparato da bambina. Ma questo mi rende “malata” o è un fatto di cultura? Forse mi si potrebbe diagnosticare un disturbo del comportamento alimentare, ma non una condizione patologica fisica come la intende la campagna in corso.
E quando mi sarei “ammalata”, poi? Il mio peso è cresciuto gradualmente, di anno in anno, e la ragione la so. Con l’eccezione di rare condizioni genetiche, endocrine o metaboliche, si ingrassa perché si mangia più di quel che si consuma. Tutto qui. I cambiamenti fisiologici della menopausa o altre alterazioni ormonali o di altro tipo possono accentuare o limitare il fenomeno, ma - tranne le solite eccezioni - per ingrassare tanto da diventare obesi (non per mettere o perdere quei pochi chili che ti impediscono di rientrare nei jeans di vent’anni fa) bisogna introdurre per molto tempo molto più di quanto si spende.
Magari convinti di stare a dieta, come mia madre secondo cui “dieta” significava saltare il primo, ma portare in tavola enormi bistecche con tutto il loro bel grasso, accompagnate da un’insalata ben condita con l’olio e accompagnata da pane fragrante. “Mangio solo bistecca e insalata e non dimagrisco”. Un classico.
Con l’eccezione di rare condizioni genetiche, endocrine o metaboliche, si ingrassa perché si mangia più di quel che si consuma.
Dire che si ingrassa perché siamo sedentari e mangiamo troppo e male non significa tuttavia ignorare le varie e molteplici cause, diverse per ognuno, che ci portano a essere sedentari e mangiare troppo e male. Non per colpa nostra, ma per una somma di fattori che oltre a una predisposizione genetica, a una cultura familiare, a una educazione alimentare, a un ambiente favorevole da tanti punti di vista all’eccesso di cibo e alla scarsità di movimento, comprende ANCHE la nostra volontà. L’obesità non è una malattia che ci è piombata addosso per caso. Non è COLPA nostra, e ci mancherebbe, ma ciò non significa automaticamente che sia qualcosa di ineluttabile contro cui non si può fare nulla, se non assumere i farmaci che ci vogliono vendere, deresponsabilizzandoci, togliendoci la prospettiva di scegliere liberamente il nostro stile di vita, facendoci pat pat con un finto paternalismo che nasconde - nemmeno troppo - gli interessi economici di chi c’è dietro.
Tante persone dimagriscono con un programma integrato di educazione alimentare e incremento dell’attività fisica. Tante. Chi non ci riesce ha meno forza di volontà? Magari sì, come chi non riesce a smettere di fumare. O forse entrambi seguono solo una strada che non fa per loro o non hanno ancora trovato la leva psicologica giusta per trovare la determinazione necessaria.
Cosa intendi per “malattia”?
I concetti di salute e malattia non si basano sempre su dati scientifici, ma talvolta dipendono da costrutti culturali. Basti pensare che fino a non troppo tempo fa anche l’omosessualità era considerata una malattia. Non è stata tanto la ricerca, quanto l’evoluzione della civiltà occidentale che ci ha permesso di superare questa definizione e riconoscere che ogni individuo può avere l’orientamento sessuale che vuole. E che se questo lo fa stare male, è per la mancata accettazione del mondo circostante, non perché essere gay sia di per sé “una malattia”.
Lo stesso vale per me. Se penso agli aspetti della mia vita influenzati dal mio peso, riguardano solo la visione che di me possono avere gli altri. Ora che ho imparato come e dove vestirmi, l’unico limite è rappresentato dal timore del giudizio altrui, non solo in privato, ma forse ancora di più in un ambito professionale. Perché tra i messaggi della campagna mediatica in corso, un punto spaventosamente vero è lo stigma che ci portiamo addosso e che troppo spesso introiettiamo anche dentro di noi. Solo che non si capisce perché mai la definizione di “malattia”, ritenuta stigmatizzante per altre condizioni, per esempio le neurodivergenze, dovrebbe al contrario liberare gli obesi dallo sguardo svalutante degli altri.
Negli Stati Uniti sono più del 40% della popolazione (e un altro 30% è sovrappeso): possiamo considerare malattia una condizione che riguarda una maggioranza così elevata di persone? Una condizione che non si può identificare con segni, sintomi, disturbi, ma solo come un eccesso di tessuto adiposo? Eccesso rispetto a cosa, poi? Ogni epoca e cultura, lo sappiamo, ha i suoi standard.
A Fernando Botero piacciamo anche noi
Il (non poco rilevante) aspetto economico
Definire l’obesità una malattia oppure una condizione che talvolta (raramente) è conseguenza di una malattia, più spesso di un disturbo del comportamento alimentare, o ancor più di abitudini e circostanze ambientali, non è una questione di lana caprina, ma di un affare di migliaia di miliardi di dollari.
Prima di tutto, certo, ci sono i ricavi delle aziende produttrici dei nuovi farmaci anti GLP-1, nati come antidiabetici, che nonostante i prezzi dei loro prodotti non riescono a tenere il passo con l’aumento della domanda. Negli USA possono arrivare a costare fino a 1.000 dollari al mese e, nonostante questo, vanno a ruba al punto che spesso non si trovano in farmacia. Entro il 2032 si stima che questa “età dell’oro” dell’industria farmaceutica possa arrivare a fruttare alle aziende produttrici più di 470 miliardi di dollari.
Ma davvero possiamo pensare di trattare con un farmaco che teoricamente sarebbe da prendere per sempre, talvolta fin dall’adolescenza (o addirittura l’infanzia), un miliardo di persone? Ovviamente no. È chiaro che il mercato si restringe ai Paesi più ricchi e, all’interno di questi, alle fasce di popolazione che se li possono permettere (o possono permettersi un’assicurazione che glieli offre), alimentando pesanti diseguaglianze che approfondiranno lo stigma che associa l’obesità ai livelli socioeconomici più svantaggiati (a New York si dice che le dimensioni dell’appartamento sono inversamente proporzionali a quelle dei vestiti).
Dove c’è un servizio sanitario pubblico, tuttavia, potrebbe andare anche peggio. La pressione dell’opinione pubblica per averli gratis è inevitabile che aumenti. E se passa il messaggio che l’obesità è una grave malattia cronica, indipendentemente da come si sta davvero, e che il peso non può scendere senza l’aiuto dei farmaci, ne consegue che questi prodotti debbano essere forniti a tutte e tutti. Ormai è anche passato un bel po’ di tempo dalla loro introduzione, e non sono emersi effetti collaterali gravi, tolta la possibile maggior perdita di massa muscolare rispetto a un dimagrimento con altri mezzi. Non passa giorno senza che se ne dimostrino nuove, strabilianti proprietà nei confronti di molte altre condizioni: perché non offrire questa opportunità anche a chi è solo sovrappeso?
Insomma, insieme a tante altre minacce alla sostenibilità dei servizi sanitari pubblici del mondo, la pressione per dare questi prodotti indiscriminatamente a tutti gli obesi mi spaventa, come un’ulteriore passo verso una sanità (per lo più, o esclusivamente, privata) in cui le persone sane, ma benestanti, riceveranno una sovrabbondanza di esami, cure e farmaci nella speranza di migliorare ulteriormente il loro benessere e la loro longevità, mentre agli altri saranno sempre più sottratti anche i trattamenti essenziali.
Se è una malattia, è una “malattia sociale”
Se l’obesità non dipendesse da uno sbilanciamento tra “entrate e “uscite”, come si dice, non si spiegherebbe perché nell’ultimo secolo obesità e sovrappeso siano diventati tanto più frequenti. Davvero pensi alle microplastiche o agli interferenti endocrini? Rare condizioni genetiche che si sono manifestate improvvisamente, prima nei Paesi più ricchi e poi negli altri? Quel che è cambiato negli ultimi decenni è il mondo in cui viviamo, le nostre abitudini, gli stili di vita. I Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie di Atlanta hanno calcolato che nel 2001, negli Stati Uniti, andava a scuola a piedi o in bicicletta solo il 16% dei bambini, mentre nel 1969 erano il 42%. Dal 1990, a mano a mano che tanti abitanti di Paesi a basso e medio reddito sono usciti dalla povertà, scoperto i fast food e acquistato l’auto, la prevalenza di obesità tra gli adulti a livello globale è più che raddoppiata e tra bambini e adolescenti è addirittura quadriplicata. E nel 2000, per la prima volta nella storia, il numero di individui sovrappeso ha superato quello dei sottopeso.
Tuttavia è curioso che la tendenza si sia potuta anche invertire, senza ricorrere alle armi della medicina. Dall’indagine “OKkio alla salute” dell’Istituto superiore di sanità emerge che in Italia, nel 2008, era obeso il 12,3% dei bambini, mentre era in sovrappeso il 23,6%: più di 1 bambino su 3, quindi, aveva un peso superiore a quello che dovrebbe avere per la sua età. Gli ultimi dati, riferiti al 2023, mostrano che in 15 anni la situazione è migliorata, con meno del 20% di bambini in sovrappeso e gli obesi sotto il 10%. Ancora troppi, soprattutto al sud, con il record della Campania, dove quasi un bambino su 5 è ancora francamente obeso e uno su 4 sovrappeso, ma comunque meglio di un recente passato.
Se proprio si vuole parlare di malattia, si tratta di una malattia sociale, che si cura meglio, in maniera più efficace, duratura, più equa e con meno effetti indesiderati con interventi di sanità pubblica che non con il trattamento del singolo
Si è “curata” una malattia o è aumentata la consapevolezza dei genitori che un bambino non deve essere grasso per essere sano e bello? Sarà tornato improvvisamente a ridursi il numero di geni che predispongono all’obesità o sarà che le famiglie hanno imparato a mangiare meglio e a praticare più attività fisica?
Se proprio si vuole parlare di malattia, mi piace il titolo di un articolo di Epicentro che parla di una malattia sociale, che si cura meglio, in maniera più efficace, duratura, più equa e con meno effetti indesiderati con interventi di sanità pubblica che non con il trattamento del singolo.
Per questo l’Organizzazione mondiale della sanità raccomanda ai governi nazionali una serie di interventi che potrebbero aiutare gli individui a fare scelte migliori che riducano il rischio di obesità negli adulti e nei loro figli: sostenere le buone pratiche fin dalla nascita, favorendo l’allattamento al seno, controllare la qualità delle mense scolastiche e regolare la vendita di prodotti ricchi di grassi e zuccheri nelle scuole e in loro prossimità, facilitare l’acquisto di alimenti più sani con politiche fiscali e dei prezzi, etichettare i prodotti per orientare i consumatori, promuovere campagne di comunicazione, incrementare l’attività fisica a scuola, inserire la prevenzione e la gestione dell’obesità tra i compiti della medicina generale.
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Ho scritto due articoli che credo siano importanti per il sito Univadis, dedicato ai medici, ma di cui chiunque può leggere qualche articolo:
in uno racconto del nuovo allarme di sanità pubblica del Surgeon General statunitense, sullo stress dei genitori, un tema molto attuale anche da noi
nell’altro rifletto sul tentativo della politica di appropriarsi della scienza, e della scienza, tramite riviste o scienziati, di schierarsi in politica
SEGNALAZIONI
Nella prima metà di ottobre sarò in giro per l’Italia come una pallina da flipper, e spero che ci sarà l’occasione di incontrarti. Se hai o vuoi comprare il Controglossario di medicina e portarmelo, te lo dedicherò volentieri.
Ecco le prime date:
venerdì 4 ottobre modererò un incontro sulla chirurgia robotica al Festival del digitale popolare a Torino, in Piazza San Carlo, verso le 17 (ma sarò lì in giro da prima)
domenica 6 ottobre alle 17 sarò invece al Festival del giornalismo culturale di Urbino, concentrato quest’anno sul contributo femminile, dove avrò il piacere di intervistare la neuroscienziata Michela Matteoli, dell’Istituto Humanitas di Rozzano, Milano.
Nel frattempo, buon weekend!
Lo ammetto ho temuto che sarebbe diventata la ormai comune glorificazione dell'obesità. Invece è un pezzo molto equilibrato e che dice chiaramente una cosa ovvia (eccesso calorico) che non piace a molti e che ha varie ragioni (queste si possono essere giustificabili).
Obesità come malattia no, fattore di rischio si. Però può essere anche un fattore invalidante, da obesi difficilmente si potranno fare tante delle cose che si fanno da magri, il fatto che si paragoni ad un'altra condizione invalidante (forte fumatore) non è che la renda più giustificabile. Semplicemente nel caso dell'obeso è palese, nel fumatore no.
Vorrei aggiungere una cosa importante a questo articolo che coglie perfettamente il punto sul problema della stigmatizzazione dell’obesità. Se una persona vuole accedere agli ambulatori del ssn che si occupano di controllo del peso, è difficilissimo. Il problema del sovrappeso c’è, dell’obesitá pure per il ssn ma non ci sono visite ad hoc da fare col ssn. Sembra che quegli ambulatori sotto endocrinologia di dietologia, si occupino quasi solo delle persone obese che si preparano alla chirurgia bariatrica e non di creare diete come fanno i nutrizionisti o i medici dietisti e dietologi a pagamento. Se l’obesità è considerata un problema per i medici e per lo Stato, dovrebbero essere dati gli strumenti anche per migliorare le condizioni fisiche dei pazienti con visite idonee. Per non parlare delle liste di attesa che sono di quattro mesi/cinque mesi dalla prima visita talvolta. A questi ambulatori si accede solo come seconda visita dopo la prima visita endocrinologica, per cui i tempi tempi si allungano inesorabilmente. Anche questo va detto. La cosa assurda che ho riscontrato io e che non ritengo giusta è che per qualsiasi patologia possibile, ad esempio anche una tosse persistente, per i medici tutto è riconducibile al sovrappeso o all’obesità se ce l’hai. Anche se non sono in relazione alcuna.