#53 C'è un'epidemia di dislessia, ADHD...e autismo?
Disturbi specifici dell'apprendimento, neurodivergenza o neurodiversità: è ora di fare un po' di chiarezza, anche per difenderci dalla fuffa e dalle truffe
Trent’anni fa le parole del filosofo Umberto Galimberti, che oggi hanno fatto tanto scalpore, sarebbero state prese come semplice buon senso. E forse a qualcuno in fondo in fondo sembra ragionevole il discorso pronunciato a un evento sulla scuola, organizzato dalla Confartigianato di Vicenza: “La scuola elementare sembra che sia diventata una clinica psichiatrica! Sono tutti discalculici, disgrafici, dislessici, asperger, autistici…”.
Se questa affermazione da sola stupisce per la sua superficialità (e ignoranza in senso letterale, cioè “di chi non sa”), occorre guardare il video che ti ho linkato per cogliere il tono di disprezzo con cui l’intellettuale (sigh) snocciola l’elenco di queste condizioni tanto diverse tra loro. Ma poi prosegue: “Ma chi l’ha detto? Ai tempi miei non c’erano queste condizioni, c’era uno che era più bravo e quell’altro un po’ meno bravo, che poi si esercitava e diventava bravo”.
“Ai miei tempi”, un campanello di allarme
Eccolo qui, il qualunquismo della locuzione “ai miei tempi” come parametro assoluto del bene e del male, di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato, una vera maledizione per una società vecchia come la nostra, una specie di zavorra che ci impedisce di andare avanti. “Ai suoi tempi”, in quei bei tempi andati, infatti, i bambini andavano a lavorare; bastava un lieve disturbo mentale - e a volte neanche quello - per finire rinchiusi in manicomio, anche per tutta la vita; a dieci anni si doveva scegliere tra la scuola media (riservata ai pochi che avrebbero proseguito gli studi) e l’avviamento professionale. Per fortuna, quindi, e bisogna sottolinearlo, che oggi i tempi sono cambiati, rispetto agli anni Cinquanta, quando andava a scuola lui.
Leggo peraltro che per frequentare il liceo classico il noto filosofo (nonché psicanalista e giornalista), poiché proveniva da una famiglia modesta, fu accolto in seminario grazie all’intercessione di un sacerdote, pur senza alcuna intenzione di farsi prete. Infatti, quando Galimberti era bambino, nel 1951, quasi il 13% degli italiani era totalmente analfabeta e un altro sostanzioso 18% sapeva più o meno leggere e scrivere, ma non aveva alcun titolo di studio. A questo 31% si aggiungeva un 59% di persone che aveva fatto solo le elementari. Meno del 6% aveva fatto le medie, poco più del 3% le superiori e l’1% era laureato.
E per fortuna che non siamo più “ai suoi tempi”, quando solo un italiano su dieci frequentava la scuola media e quasi uno su tre non aveva finito neanche le elementari
Ci credo che “non c’erano” i Disturbi specifici dell’apprendimento e che nessuno aveva cominciato a individuarli o classificarli! Allora studiava solo chi viveva in un contesto privilegiato o era particolarmente dotato e fortunato, come lui. Anche nelle famiglie più abbienti, per chi non riusciva a scuola, si aprivano altre strade. Un titolo di studio non era indispensabile per realizzarsi come persone o inserirsi nella società. Per bambine e ragazze, poi, che - vale la pena ricordare - rappresentano la metà della popolazione, il problema si poneva ancora meno. Anzi, studiando c’era pure il rischio che gli venissero strani grilli per la testa e non si preparassero come si deve al loro destino di brave mogli e madri.
Le aspettative, anzi, le richieste che facciamo a un bambino di oggi sono completamente diverse da quelle di un coetaneo degli anni Cinquanta, come era Galimberti. Se è vero che la rigida disciplina di allora imponeva con le minacce di stati seduti al banco immobili e zitti, per sei giorni a settimana, questo era dovuto solo per le poche ore della mattinata, salvo poi correre, saltare, giocare in libertà senza il controllo degli adulti almeno fino al tramonto. E anche chi, dopo la scuola, doveva aiutare i genitori nei lavori agricoli o in altre attività, lo faceva muovendosi per lo più all’aria aperta, ricevendo mille stimoli, imparando altre competenze. Ma soprattutto, l’istruzione era una delle possibili strade, non una via obbligata come oggi per trovare il proprio spazio nel mondo.
Per questo, non per moda, ci sono voluti decenni prima di capire che dislessia, discalculia, disortografia erano tanto frequenti, non dipendevano da uno scarso impegno né da minore intelligenza, ma dal minor sviluppo di capacità che dalle origine dell’umanità fino alla seconda metà del secolo scorso non erano così rilevanti dal punto di vista evolutivo. Solo a partire dagli anni Novanta i Disturbi specifici dell’apprendimento sono stati descritti come difficoltà che riguardano una specifica abilità (per esempio la lettura o il calcolo), fondamentale per l’apprendimento scolastico, ma indipendentemente dal grado generale di “intelligenza”, comunque la si riesca a definire, o comunque dalle capacità cognitive in generale dell’individuo.
Quando i bambini, se non riuscivano a scuola, erano mandati a lavorare, non c’erano diagnosi da fare.
L’impatto della nostra ignoranza su generazioni di studenti
In mezzo, tra la maestrina dalla penna rossa e i giorni d’oggi, a mano a mano che si comprendeva l’importanza dell’istruzione universale, si contano generazioni di bambine e bambini, ragazzi e ragazze, che hanno sofferto per essere costretti a frequentare una scuola che non capiva le loro difficoltà, che li etichettava come svogliati o lazzaroni, quando non, letteralmente, “deficienti”, compromettendo i rapporti tra genitori e figli, stigmatizzandoli e minando spesso per sempre la loro autostima e il loro futuro. Molti per fortuna sono riusciti a reagire e trovare una loro strada anche al di fuori di un percorso scolastico convenzionale, e in rete si trovano infiniti elenchi di personaggi famosi dislessici o presunti tali, ma interessa poco riportarli qui.
Interessa di più capire che non è la capacità di leggere, di far di calcolo o di scrivere senza errori che conta: se una persona, ascoltando delle lezioni registrate, o usando la calcolatrice, o riempiendo i suoi testi di svarioni, impara quello che deve imparare per la sua formazione personale e professionale, e con gli stessi strumenti, di cui oggi disponiamo, riesce a fare la sua parte a servizio della società, cosa importa che abbia raggiunto l’obiettivo per una strada diversa rispetto a quella di altri? Mi sembra logico, a meno che si consideri la scuola come un campo di gara dove emergere sugli altri invece che un luogo il cui scopo e il miglior grado di apprendimento possibile per ciascuno.
Un po’ come dire a un bambino che non vede alla lavagna di sforzarsi di più, che gli occhiali rappresentano un indebito vantaggio rispetto ai compagni, e non un semplice mezzo per vedere come gli altri, e come gli altri imparare, quindi.
Qualche notazione personale (e un mea culpa)
Come ti dicevo nella puntata in cui, prendendo spunto dalle Paralimpiadi, ho affrontato il tema della disabilità, il mio curriculum scolastico sarebbe stato molto meno brillante se avesse richiesto un valido senso dell’orientamento, per esempio, invece che la capacità di lettura o di espressione. In una società primitiva, la mia incapacità di ritrovare (senza Google Maps!) un luogo favorevole per la raccolta del cibo o per la caccia, o di sfuggire a un pericolo ritrovando la strada di casa, avrebbe rappresentato un grosso handicap* , che avrebbe condizionato la mia possibilità di integrazione sociale e addirittura le mie probabilità di sopravvivere. Della mia potenziale attitudine a studiare o a scrivere, invece, nessuno avrebbe mai saputo (e a nessuno sarebbe mai importato) nulla. Tanto più essendo una donna.
*credo che in questa accezione si possa usare questa parola, altrimenti mi scuso, lungi da me la volontà di essere poco rispettosa.
Un po’ come dire a un bambino che non vede alla lavagna di sforzarsi di più, che gli occhiali rappresentano un indebito vantaggio rispetto ai compagni
Ma eccoci al mea culpa, perché se non si è in grado di riconoscere i propri errori, dettati da pregiudizi (o dal pericolosissimo “buonsenso”) in campi che non sono di nostra pertinenza, è un attimo fare lo stesso errore di Galimberti (che, ricordo, nonostante la sua figura eclettica, non lavora su questi temi).
Da quando il primo dei miei figli ha cominciato ad andare a scuola fino a quando l’ultima ha varcato la soglia del liceo sono passati quasi trent’anni, un lungo periodo perfettamente sovrapponibile alla presa di coscienza di queste questioni nella scuola italiana.
Assistendo alla crescita costante di diagnosi di disturbi specifici dell’apprendimento (DSA) e bisogni educativi speciali (BES) tra i loro compagni, quindi, anch’io in passato mi sono chiesta se non si stesse medicalizzando troppo la normale variabilità che esiste tra bambini tranquilli e vivaci, più o meno bravi a scuola, più o meno estroversi e così via. E se per qualcuno che davvero aveva difficoltà, non ci fosse, d’altra parte, chi ne approfittava per avere un percorso facilitato.
Galimberti però va anche oltre, insinuando che questi alunni sottraggano a chi ha gravi disabilità gli insegnanti di sostegno: “Gli insegnanti di sostegno, oltre a dover essere preparati e non semplicemente essere i residuali di coloro che non hanno avuto una cattedra e che non sanno niente delle patologie dei ragazzi, dovrebbero essere dati a chi ha veri problemi psicologici e non ai dislessici”. Ecco, no. Gli insegnanti di sostegno non sono affatto previsti per i dislessici (ma neanche per chi ha semplici “problemi psicologici”). Ma perché bisogna invitare a parlare chiunque sia famoso, indipendentemente dal fatto che sappia quel che dice?!?! Sgrunt!
Il caso dell’ADHD
Comunque, nel suo elenco scandalizzato di nuove diagnosi, Galimberti se ne è dimenticata una importante, cioè l’ADHD, il Disturbo da deficit di attenzione e iperattività. Quando negli Stati Uniti si cominciò a definire questa condizione e si scoprì che questi bambini non avevano solo “l’argento vivo addosso”, ma un cervello con un diverso modo di approcciarsi alla realtà, anch’io ero portata a pensare che si trattasse di un’eccessiva medicalizzazione della sana vivacità dei più piccoli, solo imbrigliata nei tempi e nelle modalità della vita di oggi. “Lasciateli giocare liberamente all’aperto per il tempo che serve e non ci vorranno farmaci”, ripetevo io stessa. Che banalità. E come me ne vergogno.
Crescendo in una famiglia come la nostra, con due genitori laureati in medicina che snobbavano tutto questo filone di ricerca neuropsichiatrica perché “ai nostri tempi” non esisteva, e di conseguenza non l’avevamo studiata, anche quelli tra i miei figli che hanno fatto più fatica a scuola, nonostante l’impegno e un’intelligenza normale o in altri campi decisamente brillante, si sono convinti che chiedere aiuto fosse un segno di debolezza e che riconoscere un disturbo fosse una scorciatoia per avere compiti più facili o più brevi o altre facilitazioni.
Il risultato? Qualcuno resta senza diagnosi, ma anche quello a cui sarebbe stato, molto più tardi, riconosciuto uno di questi disturbi, non ha usufruito di strumenti che gli avrebbe consentito di avere un percorso scolastico più lineare e, soprattutto, sereno.
“Perché patologizzare tutte le insufficienze?”
Se con l’aiuto di cui hanno bisogno più persone riuscissero a informarsi, studiare, fare ricerca, forse potremmo anche migliorare la posizione dell’Italia nella classifica europea del tasso di cittadini laureati, in cui siamo in coda. Non si tratta di imparare meno, ma di imparare di più. Forse è questo che sfugge a Galimberti, nel cui discorso non manca l’inevitabile attacco ai genitori: “Pur di far fare un percorso facilitato, si fanno fare una bella ricetta dal medico. Ai genitori interessa questo, non la formazione, è vergognoso. È la strada dell’ignoranza. Un’insegnante cosa può fare di fronte a un certificato medico?”. E ancora: “Calma con la patologia. Se no mettiamo al mondo solo dei ragazzi handicappati dal punto di vista psichiatrico”. Qui la calma la dobbiamo trovare noi, leggendo, ma proviamo a sorvolare sull’uso dei termini, cercando di essere comprensivi per l’età di chi parla.
Il punto, tuttavia, è importante. Queste ragazze, questi ragazzi, hanno una disabilità? O una “malattia”, come farebbe pensare il termine “diagnosi” e la necessità di una certificazione medica? In generale, non piace neanche a me il modo con cui la nostra società tende a medicalizzare ogni aspetto della nostra vita, per cui su questo posso essere d’accordo con il senso, non con le parole, di Galimberti. Questi bambine/i e ragazzi/e non sono certo “malati”, né avrebbero bisogno di una sorta di timbro che li distingua dagli altri.
Basterebbe cominciare a pensare al concetto di “neurodiversità”, secondo cui ogni cervello ha delle sue peculiarità rispetto a quelli degli altri, e di “neurodivergenza” per quelli che hanno un funzionamento peculiare, meno comune rispetto alla media. E ripensare la scuola come un luogo accogliente in cui ciascuno, indipendentemente dal fatto di avere un’etichetta o una certificazione possa trovare il proprio percorso di apprendimento.
Autistici e non Asperger
Vale anche per le persone che si trovano nello spettro autistico, condizione che spesso coesiste con l’ADHD di cui si diceva sopra. Non si usa più invece la definizione di sindrome di Asperger, citata da Galimberti, e non solo per evitare di ricordare il dottor Asperger, medico austriaco che si fece coinvolgere nella ricerca eugenetica del regime nazista. Dalla pubblicazione del DSM-5 (l'ultima edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali dell’Associazione dei Psichiatri Americani) è stata proprio respinta la figura dell’Asperger o del “savant” come genio asociale o “idiota sapiente”, spesso romanzata nella letteratura e nel cinema, ma si è inserita questa condizione all’interno del più ampio spettro autistico, che va da questo Disturbo di tipo 1, senza compromissione intellettiva e del linguaggio, alle forme più gravi, di livello 3, dove sia le capacità di linguaggio, sia di interazione con gli altri sono molto compromesse e occorre maggior supporto. In mezzo, c’è un’infinità di persone e situazioni, più o meno inserite nella società, più o meno “funzionanti”, non solo in relazione a come è “cablato” il loro cervello, ma anche a quanto l’ambiente circostante è inclusivo e favorevole, ed è su questo che occorre lavorare. Ne ho parlato alla voce “autismo” del Controglossario di Medicina, se vuoi approfondire.
Ti invito solo, alla luce di tutto questo, di diffidare delle tante offerte di “cura per l’autismo” in cui le famiglie possono incappare, in rete e non solo. L’autismo di per sé non “si cura”, né con la dieta, né con altri fantasiosi o pericolosi trattamenti, per esempio, come capita di sentire, con infusioni di cellule staminali. Ci possono essere però percorsi che in alcuni casi posso aiutare, per esempio dal punto di vista comportamentale e della comunicazione, come riportano le linee guida pubblicate a ottobre 2023 dall’Istituto Superiore di Sanità.
Il riferimento allo spettro autistico mi riporterebbe alle ultime notizie provenienti dagli Stati Uniti, dove Elon Musk, che appunto rivendica la sua condizione di Aspie - come alcuni “Asperger” si definiscono con orgoglio - sta sguinzagliando i suoi in una disastrosa scorribanda nelle istituzioni della ricerca e della sanità americana. Ma purtroppo non c’è più spazio, per cui ci tornerò.
Anche l’influenza aviaria A(H5N1), da parte sua, sempre negli USA, non si ferma e anzi contribuisce in maniera significativa all’aumento spaventoso del prezzo delle uova, riconducibile più all’abbattimento di milioni di galline che non all’inflazione in generale o a politiche dei prezzi speculative da parte degli allevatori. I casi nelle persone sono arrivati a 70, con a oggi una sola vittima, ma nelle prime settimane del 2025 sono stati registrati altri tre casi, di cui due, uno in Ohio e uno un Wyoming, hanno richiesto il ricovero. Entrambi si sono contagiati dai polli (uno in un allevamento, uno nel pollaio di casa), confermando l’idea, che si sta consolidando, secondo cui il ceppo D1.1 circolante negli uccelli sia più pericoloso per gli esseri umani di quello B3.13, che a oggi ha colpito 976 allevamenti bovini.
Dal sequenziamento di uno dei due ricoverati e di quello meno grave rimasto a casa, in Nevada, sono emerse mutazioni che fanno temere un nuovo adattamento del virus alle vie respiratorie umane, ma per ora continuano a non essere confermati contagi tra le persone.
Ti segnalo infine che dell’epidemia di morbillo in corso soprattutto in Texas - di cui già si registra purtroppo la prima vittima in un bambino non vaccinato in età scolare - parlerò martedì tra le 11,30 e le 12 a Radio Tre Scienza su Rai Radio Tre.
Intanto ti saluto e ti auguro un serenissimo weekend!
Una mia amica, che ti legge da quando tempo fa le girai una tua newsletter, stamattina mi ha scritto "ringrazia tantissimo la tua amica dottoressa Villa." Ha avuto le diagnosi di ADHD e autismo poco fa, a 50 anni suonati. Sta molto male, dopo una vita vissuta a colpi di antidepressivi, ma almeno adesso qualcuno ha ascoltato e correttamente interpretato i suoi sintomi.
Rileggendo qualche anno fa "Cuore" ai miei figli ho scoperto che quasi tutti usano "maestrina dalla penna rossa" come simbolo dell'insegnante pignola e rigida del passato...pensando che la penna rossa sia una penna dell'inchiostro rosso. E invece...era una piuma sul cappello di una maestrina che si faceva in 4, anzi in 16, per i suoi ragazzi.